L’inviato del “Corriere della Sera”, Carlo Vulpio, sarà lunedì 30 giugno alle ore 17.30 a Benevento, presso la Sala Vergineo del Museo del Sannio, per presentare il libro “Roba nostra. Storie di soldi, politica, giustizia, nel sistema del malaffare”.
Ospite d’eccezione dell’evento organizzato da “Altrabenevento – associazione per la città sostenibile contro il malaffare” sarà Gioacchino Genchi, il consulente informatico del magistrato Luigi De Magistris nell’inchiesta “Why not”, che l’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, una anno fa definì “mascalzone”, oltre a soprannominarlo “Licio Genchi”.
E Genchi, vice questore in aspettativa a Palermo, collaboratore di Giovanni Falcone e consulente anche per l’inchiesta su Francesco Campanella (l’ex segretario nazionale dei giovani Udeur accusato di aver procurato la falsa carta d’identità al capo della mafia Bernardo Provenzano) ha deciso di rispondere per la prima volta alle accuse mossegli da Clemente Mastella proprio nella sua terra, a Benevento, in occasione della presentazione del libro di Carlo Vulpio.
Ecco come lo presenta Gianni Barbacetto sul Venerdì di Repubblica lo scorso 7 novembre:
“La battaglia politico-giudiziaria del momento si combatte a Catanzaro, dove vive e lavora il magistrato Luigi De Magistris. E a Roma, dove stanno i suoi indagati più eccellenti, il ministro della Giustizia Clemente Mastella e il presidente del Consiglio Romano Prodi. Ma, per capire come è nata quella battaglia, bisogna andare più a sud: a Palermo. È qui, in un palazzone moderno confiscato alla mafia (famiglia Ganci, quella che «era nel cuore» di Totò Riina), la centrale operativa da cui sono partite le indagini più delicate di De Magistris, quelle sui rapporti telefonici tra gli imprenditori e i politici. È qui che sono stati scoperti i contatti tra il principale indagato – l’imprenditore Antonio Saladino – e suoi interlocutori, tra cui Mastella e Prodi. È qui che lavora il superconsulente della procura di Catanzaro, che li ha svelati. Si chiama Gioacchino Genchi. Ha 47 anni, qualche chilo di troppo e gli occhi sempre incollati ai due, tre, quattro schermi di computer che stanno sulla sua scrivania. Ha lavorato per anni nell’ombra, ma ora è finito anche lui nel clamore della vicenda De Magistris. Al pm hanno strappato l’inchiesta. Ma anche Genchi ha avuto la sua dose di polemiche: Mastella lo ha prima definito pubblicamente «mascalzone», poi in una conferenza stampa lo ha chiamato «Licio Genchi». Chi è, davvero, il superconsulente di Palermo che ha fatto arrabbiare il ministro della Giustizia?
Per rispondere bisogna venire fino in Sicilia, in una piazza che non è più centro e non è ancora periferia. Fuori, c’è il traffico eternamente arruffato di Palermo e un silenzioso venditore di pane, panelle e arancini. C’è, incessante, il rumore dei clacson, delle voci, dei motori. Dentro, il silenzio di una clinica svizzera. Bisogna scendere nei sotterranei del palazzo per scoprire l’aria asettica degli uffici di Genchi, 500 metri quadri blindati dove ci si può immaginare di essere a Locarno, o a Ginevra. Monitor dappertutto. Server. Apparecchi telefonici. Schedari. Qualche pianta verde non proprio felice di stare sottoterra alla luce dei neon. Lui, Genchi, parla poco e ascolta molto. Soprattutto telefonate, soprattutto in cuffia. Ma la sua specialità sono i tabulati telefonici, cioè gli elenchi informatici delle chiamate. Li butta dentro i suoi computer, li analizza, li incrocia, li frulla, li strizza e alla fine estrae rapporti, ricorrenze, complicità. Con chi parla il mafioso? Con chi si accorda il politico? Che contatti stringe il comitato d’affari? È incredibile quante cose si possano capire dai tabulati telefonici. Gioacchino Genchi ci ha costruito sopra una solida professionalità.
Ha cominciato sette anni fa: nel 2000, da vicequestore aggiunto, si è messo in aspettativa e ha cominciato una nuova vita, sepolto almeno 15 ore al giorno nel suo lucido bunker svizzero. È diventato consulente giudiziario per le procure. Palermo, Caltanissetta, Milano, Roma, Agrigento, Reggio Calabria, Locri… Infine Catanzaro. Ma già prima, da poliziotto, si era specializzato in indagini informatiche. Con la divisa addosso aveva respirato l’aria pesante della Palermo in cui cadevano, uno dopo l’altro, i migliori tra i poliziotti, i carabinieri, i magistrati… Non è un rambo, non ne ha neppure il physique du role. Eppure la sua guerra l’ha combattuta anche lui, mettendo a profitto quella passionaccia che ha avuto fin da giovane per l’elettronica, l’informatica, la telefonia. Quando Giovanni Falcone subì il misterioso (e ancora inspiegato) attentato dell’Addaura, Genchi è al suo fianco nelle indagini, per capire chi fossero le «menti raffinatissime» (così le definì Falcone) che nel 1989 avevano tentato di far saltare in aria il magistrato nella villa che aveva affittato, affacciata sul mare di Palermo.
Allora Genchi aveva mostrato a Falcone il Videotel, l’apparecchio che permetteva le prime connessioni telematiche con le banche dati: un antenato di internet. «Falcone s’illuminò», ricorda oggi Genchi. «Capì subito che gli strumenti elettronici potevano rivoluzionare le indagini». Quando poi fu ucciso, nel 1992, la procura di Caltanissetta che dà la caccia agli assassini affida proprio a Genchi l’analisi dei tre computer di Falcone. Lui scopre che sono stati manomessi, che qualcuno ci è entrato a curiosare dopo la morte del magistrato. Un file è stato addirittura cancellato. E l’agenda elettronica Casio? Falcone non la utilizzava più da tempo – raccontano alcuni testimoni – dopo che gli si era smagnetizzata in aeroporto. Genchi scopre invece che aveva continuato fino all’ultimo ad annotare appunti riservati e a segnare appuntamenti: con un procuratore federale degli Stati Uniti; con il boss di Cosa nostra Gaspare Mutolo, che non aveva ancora deciso di diventare collaboratore di giustizia; e con il suo grande avversario dei tempi dei veleni palermitani, il procuratore Piero Giammanco. Gli autori delle intrusioni restano però senza volto.
Incaricato delle indagini tecniche sulla strage di via D’Amelio, Genchi scopre un quadro perfino ancor più fosco. Prima dell’esplosione che uccide Paolo Borsellino e la sua scorta, dal castello Utveggio, su quel Monte Pellegrino da cui si domina via D’Amelio, partono strane telefonate di uomini del Sisde (il servizio segreto civile) che s’incrociano con il cellulare clonato di un boss di Cosa nostra, Giovanni Scaduto. Un centro studi che ha sede nel castello, il Cerisde, copre in realtà una base del Sisde che dopo la strage viene smantellata in tutta fretta. E il sofisticato telecomando dell’autobomba che uccide Borsellino e la sua scorta – sostiene Genchi durante il processo – potrebbe essere stato azionato proprio dal Monte Pellegrino. Con gli uomini del castello Utveggio aveva lavorato anche Bruno Contrada, numero tre del Sisde, poi condannato per i suoi rapporti con la mafia.
È dopo queste indagini-choc sulle stragi del 1992 che Gioacchino Genchi decide di togliere la divisa, di mettersi in aspettativa e di continuare a lavorare come consulente. Il lavoro non manca: le procure gli chiedono di frullare tabulati per i processi al senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, al presidente della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro, alle talpe di Cosa nostra dentro il Palazzo di giustizia di Palermo. Ma d’indagare anche, per esempio, sulla scomparsa della piccola Denise Pipitone.
Appena può, Genchi torna nel suo paese, Castelbuono, sulle prime pendici delle Madonie, da dove annusa, dall’alto, il mare. Quando è a Palermo, invece, sta chiuso nel suo bunker, esce pochissimo, niente cinema, niente calcio. Gli piacciono le piante (coltiva buoganville) e la cucina. «Sì, l’unica tessera che ho è quella di Slow food. Certo, la bilancia è il mio primo nemico. Ma d’altra parte le cose più belle della vita o sono immorali, o sono illegali, o fanno ingrassare». Lui le conosce bene tutte, le osserva da vicino ogni giorno, le vede scorrere sugli schermi dei suoi computer. Ma ha deciso di cedere solo a quelle che fanno ingrassare.
A finire nel fuoco delle polemiche si è ormai abituato. Gli hanno rimproverato di guadagnare troppo, con i soldi delle procure che gli affidano le consulenze. «Poche migliaia di euro», risponde. «È molto di più quello che le nostre indagini hanno fatto recuperare allo Stato». Un esempio? Nei computer di Pino Lipari, fedelissimo di Bernardo Provenzano, Genchi ha scovato e ricostruito decine di file nascosti: tra questi, l’elenco dei beni del boss, del valore di parecchi milioni di euro, poi tutti sequestrati. «Ma in realtà lo Stato per le mie consulenze non scuce una lira, perché le spese sono poi addebitate agli imputati condannati. Quanto alle indagini per la procura di Catanzaro, beh, non mi hanno ancora rimborsato neppure le spese del traghetto da Messina a Villa San Giovanni».
Già, le indagini di De Magistris. È grazie a queste che Genchi si è guadagnato il «mascalzone» di Mastella, quando, nel luglio 2007, il sito web radiocarcere.it ha pubblicato una sua relazione in cui era segnato in chiaro il numero del cellulare del ministro. Poi a ottobre, dopo la puntata di Annozero sull’inchiesta di De Magistris, Mastella ha rincarato la dose e in una conferanza stampa lo ha chiamato «Licio Genchi». Lui non si scompone. Fa notare che il documento con il cellulare di Mastella ha il timbro del Tribunale del riesame, non esce dal suo studio palermitano, ma dal Palazzo di giustizia di Catanzaro. «E poi ha reso pubblico anche il mio indirizzo e il mio numero di telefono, scritti sulla copertina del rapporto», protesta. Infine annota, perfido: è finito in rete subito dopo essere stato depositato dal magistrato agli avvocati di Luigi Bisignani, oggi indagato a Catanzaro, ieri iscritto alla P2 e condannato al processo Enimont. «Metterlo per un’ora sul web è stata una trappola, una manovra contro di me e De Magistris. Per permettere di additare la fuga di notizie e gridare al complotto». Dopo quel primo episodio ne sono arrivati altri: Panorama rivela che sul registro degli indagati c’è il nome di Prodi; e poi Libero annuncia che è indagato anche Mastella. Intanto arriva la richiesta del ministro di trasferire De Magistris. E infine l’inchiesta gli viene strappata. Di più, Genchi non dice. Si rinchiude nel suo bunker. Si prepara a lasciare anche lui l’indagine e a diventare, nell’indagine, testimone. Annaffia le piante e ammira, fiero, le sue buganville”. (visita il sito)