di Giancristiano Desiderio
La casa è vuota. Fuori soffia un vento freddo che scende dal Taburno. E’ caduta la prima neve nel giorno di santa Lucia, il primo veramente freddo di un lungo inverno. Mamma è andata via. Non tornerà più. Quando di mattina l’ho salutata non sapevo se l’avrei rivista viva. Agli studenti che mi ascoltavano ho letto poche righe di una lettera di Benedetto Croce a Renato Serra in cui il filosofo, che ha perso da dieci giorni l’amata e ha rivissuto il “tremuoto” dell’esistenza, dice all’amico che altro non c’è da fare che imparare a distaccarsi senza cadere. Lo dicevo ai giovani parlando del sale della vita e della sua tragica serietà, in realtà, in cuor mio sapevo di parlare di me stesso e di mia madre. Ora, sarò davvero capace di distaccarmi senza cadere e stare all’altezza di questa altezza?
Ho rivisto mia madre viva ma sofferente. Quanto dolore in questa malattia che ci ha squassato il petto. Una malattia lunga come una dura vita breve. A volte la compassione era così forte che ci sembrava di essere malati noi stessi. Se avessimo potuto, io e miei fratelli, Giorgio e Dario, avremmo preso su di noi il male pur di dar sollievo al corpo e all’anima di nostra madre. Un giorno, quando poteva ancora parlare – molti anni fa, ormai – alla sua cara amica Nella che le diceva che ognuno ha la sua croce, disse: “Io sono in croce”. Aveva ragione e presentiva il destino. La bestia che le ha tolto la vita prima della morte è qualcosa di così divino e così maligno che ogni volta che la vedevo, vedevo l’oltreumano. Capisco così che devo distaccarmi senza cadere perché mamma non poteva più essere un Christus patiens e doveva trovare una giusta eterna pace. La sua morte è stato il suo ultimo atto d’amore.
Alla fine del giorno di santa Lucia ho visto la Pietà, non di marmo ma umana: non era la Madre a tenere il Figlio ma il Figlio la Madre. Dario mi aveva chiamato cinque minuti prima: “Vieni”. Una corsa, il vento mi sollevava e guidava come il soffio della vita. Sono arrivato e il Figlio teneva a sé la Madre, curandola, pulendola, amandola ancora una volta. Una scena straziante, eppure bellissima come bellissima era mia madre. Mio fratello è stato in Bosnia, sotto il cielo sporco di Sarajevo e con la madre è stato un eroe di guerra. L’ho abbracciato mentre la teneva al petto e mi uscivano dalla testa, come un fiotto di lava dalle ferite del vulcano, le parole di mio padre che diceva di Dario: “Tu hai un cuore grande, sei così generoso”. Quando è sopraggiunto Giorgio siamo stati ancora una volta noi tre sotto il legno a tirar giù il Cristo dalla croce.
La nostra vita è un sentimento lavorato. E’ vero che non possiamo vivere di affetti per cose o persone e dobbiamo imparare ad amare sapendo che arriverà il momento del distacco. Imparare a farlo è necessario ed è questo il prezzo che si paga alla vita. E’ anche vero che quando finisce un grande amore è come se venisse sradicato un grande albero dalla terra e rimane un fosso, una voragine, un abisso. Non resta altro da fare che riempire la terra che si è aperta sotto i piedi con altra terra e riprendere il cammino. Altrimenti? Non vivere per il timore di morire, non amare per la paura del dolore? C’è chi sceglie di essere freddo e vivere freddamente, ma chi ha scelto di vivere amando una vita degna di essere vissuta sa che dovrà distaccarsi senza cadere e continuare a lavorare in cuore suo l’affetto che lo ha nutrito per conquistare una serenità dolorosa che, forse, è l’unica possibile, la sola felicità umana che ci è dato avere e che per pudore e gentilezza, sdegno o verità non è neanche giusto chiamare felicità ma più terrenamente umanità.
Sono i poeti che parlano dei loro sentimenti perché gli affetti e le passioni che ci agitano sono il cuore della loro vita. Non mi è dato farlo perché poeta non sono e la mia è solo una nuda cronaca degli eventi d’amore e dolore che ogni uomo che perde la madre vive. La mia è la raffigurazione della Tempesta che noi stessi siamo come esseri pensanti che lavorano i loro affetti e pagano la colpa, che non hanno, dell’esistenza. Madre e figlio sono la carne e il sangue del verbo. Senza questa carne sanguinante l’essere stesso non sarebbe. Dio può essere indifferentemente Padre e Madre, maschio e femmina, perché lui stesso è figlio di un amor dei intellectualis in cui l’umanità vive, pensa, ama. Se c’è una cosa che ci accomuna in questo mondo è che siamo figli. Possiamo essere diversi per tante cose, per gusti e per ricchezze, per pelle e per nazione, per religione e per cultura ma se siamo al mondo siamo tutti figli. Possiamo essere figli di dio o figli di puttana, figli della gallina bianca o figli della cameriera ma tutti siamo figli, persino chi non ha una madre e chi ne ha due. Essere figli è il nostro statuto ontologico al quale Dio stesso, come nella Pietà michelangiolesca, rende omaggio con la Madre che tiene sulle gambe il Figlio morto: Dio per essere non può che mettere al mondo la figliolanza umana che lo rende Padre, altrimenti sarebbe una immota lastra di ghiaccio identica a se stessa per l’eternità vana.
Scrivo sullo stesso tavolo che un tempo vedeva riunita intorno a sé una famiglia piena di gioia e di amore che un tempo assai lontano, quando nelle case andava via la luce, metteva a tavola le candele o accendeva una lampada a gas. Le stanze risuonano delle voci, delle feste e dei litigi che ci hanno unito e ci hanno reso noi stessi. Persino il vento che continua a soffiare senza sosta è familiare, come se fossero i miei maggiori che mi fanno visita e mi chiamano per farmi distaccare senza cadere. Qualche settimana fa in soffitta è spuntata come dal nulla la lampada a gas. Avrà almeno trent’anni e più. Ho provato ad accenderla. Funziona ancora. C’è ancora luce.
Non esistono parole di consolazione per il dolore di un figlio
Solo il tempo potrà alleviare un po’ il suo dolore
Caro Cristiano, le tue parole toccano l’anima, il cuore. Grazie per averci reso partecipi di un pensiero così bello che solo l’amore infinito di un figlio poteva scrivere.
Condoglianze, ma ricorda che quando c’è stato vero amore, il tempo renderà i ricordi bellissimi e dolcissimi.
La bellezza di “zia Isabella” (mi permetto di chiamarla così), non solo esteriore, traspare oggi dalle tue parole, dai tuoi sentimenti, dal Tuo, e Vostro, modo di essere. Aveva qualcosa di particolarmente elevato, di sovrumano, di sublime.
Chi la conosceva non riesce a spiegarsi perché le sue pene siano state direttamente proporzionali alla sua nobiltà d’animo.
Le tue riflessioni, generosamente condivise in un momento in cui avresti dovuto riceverne, danno conforto e placano in parte il turbinio di domande che tormenta chi vuole andare in fondo, il più possibile vicino alla Verità, dove… “c’è ancora luce”.
Bellissima,accorata,emotivamente toccante,una lirica piena di candore,grazia e sentimento che trapassa dalla mente al cuore x essere egregiamente esposta da un grande ,poeta,scrittore, acuto narratore nonché filosofo.