di Giancristiano Desiderio
Avevo promesso ai miei quattro lettori che sarei ritornato a scrivere della scandalosa vicenda dell’arresto di Paolo Di Donato. Mantengo la promessa e nel migliore dei modi. La Cassazione, infatti, si è pronunciata e ha detto che il cosiddetto “re dei migranti” non doveva essere arrestato. Il giudice dell’alta corte “annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alle esigenze cautelari e rinvia per nuova deliberazione su tale punto al tribunale di Napoli sezione riesame provvedimenti coercitivi”. Tradotto: l’arresto non doveva esserci. E’ quanto ho sempre sostenuto in splendida solitudine su queste colonne fin dal primo giorno dell’arresto fatto con clamore, sirene, telecamere, conferenza stampa e tante altre teatralità che potevano essere risparmiate a tutti noi per elementare senso della offesa giustizia e della perduta eleganza. Invece, ciò che non doveva essere fatto è stato fatto e ciò che non doveva essere detto è stato detto. Ora, anche se la Cassazione viene a correggere il torto in diritto, neanche i giudici che credono di essere dei padreterni in terra possono fare in modo che ciò che è stato è come se non fosse mai stato. Niente, questo potere non ce l’ha neanche Dio. E così Paolo Di Donato è stato arrestato per davvero e ha pagato sulla sua pelle l’atto ingiustificato che è ricaduto sulla stessa attività economica e di accoglienza dei centri Maleventum distruggendoli. Risultato: deportazione dei migranti e licenziamento dei dipendenti. Un capolavoro.
Una brutta storia. Una brutta storia in cui, al contrario di quanto raccontano le cronache, il cattivo non è l’indagato – il Re non è ancora nemmeno imputato – ma quanti, sentendosi tanto degli immacolati gigli di campo, puntano il dito e cianciano e concionano senza naturalmente sapere né leggere né scrivere. Ho difeso Paolo Di Donato per un motivo semplice e valido: era evidente che l’indagine – per i reati contestati, i tempi, gli uomini coinvolti, le istituzioni, i governi – poteva svolgersi in piena legittimità senza far ricorso agli arresti. Ho messo in luce, da subito (potete rileggere i pezzi: Paolo, Paolo Pa, Paolo maledetto; Un giudice per Paolo Di Donato; Se a difendere Paolo Di Donato sono gli immigrati) che la cosa più importante, anche a tutela della stessa qualità dell’indagine giudiziaria, era garantire le garanzie. Invece, mi è stato detto che ero il solo a difendere Paolo Di Donato perché santagatese come lui. Una scemenza che, purtroppo, può essere detta solo in un paese come il nostro che non conosce la cultura dell’habeas corpus e mena vanto dell’ignoranza. Solo in questo paese, purtroppo, i giornalisti imbevuti di rancore e giustizialismo diventano i carnefici delle libertà individuali e si avvedono di fare il gioco dei dittatorelli e dei nemici della stampa solo quando loro stessi entrano nella trappola per topi che hanno con tanta cura montato. Ma qui il problema non è che io vedevo giusto e altri erano ciechi, tantomeno le critiche rivolte a me che vanno benissimo. Il problema è che si mettono le persone in galera con tanta, troppa facilità; il problema è che si privano gli altri della libertà con grande allegria; il problema è che questa storia va avanti da tanti anni e ora, a furia di cantare la canzone bugiarda e idiota e disonesta dell’onestà, il giustizialismo è passato da lotta politica a programma di governo e non rimane che arrestare i dissenzienti; il problema, per stare in loco, è che il giornalismo beneventano – se ci fosse un giornalismo beneventano – non esprime mai un briciolo di critica non del potere, che è cosa facile a farsi, ma del potere dell’opinione dominante, che sia espressa da un’autorità, da un movimento, dal vento. Risultato: si muore nel conformismo anche quando è palesemente idiota.
La procura ha tutto il diritto e tutto il dovere di fare indagini. Ma non ha il diritto di chiedere l’arresto di chicchesia quando mancano i presupposti certi e determinati. E questo è esattamente il caso della vicenda di Paolo Di Donato. Il giudice delle indagini preliminari – che è un istituto di garanzia – avrebbe dovuto negare l’arresto e, invece, lo ha concesso. Il tribunale del riesame – che è un altro istituto di garanzia – avrebbe dovuto scarcerare subito l’indagato e, invece, ha confermato l’arresto. Un giudice, un giudice, c’era bisogno solo di un giudice per riconoscere a un uomo la sua inviolabilità. E’ stato necessario arrivare fino in Cassazione per vedere riconosciuta una garanzia che non doveva essere messa in discussione. Ma nel lasso di tempo che c’è tra l’arresto ingiustificato e l’intervento della Cassazione accade quanto non sarebbe dovuto accadere: la distruzione di vite, di esperienze, di lavori, di destini. Brutta, brutta storia in cui il Re doveva essere ghigliottinato e il circo mediatico-giudiziario ha funzionato come una gioiosa macchina da guerra che non ha neanche più bisogno di essere preparata perché al primo odor di sangue umano scatta automaticamente in azione come un congegno cibernetico.
Ora, però, che la Cassazione ha dato ragione non a me, ma alla libertà negata di Paolo Di Donato, cari giornalisti, sindacalisti, magistrati fatevi un bell’esame di coscienza e chiedetevi se fate bene il vostro mestiere per poi, magari, chiedere scusa, non al “re dei migranti” – perché questa pratica delle scuse pubbliche è tanto ipocrita quanto totalitaria – ma a voi stessi per non aver fatto bene il vostro lavoro e così, magari, la prossima volta quando ci sarà da decidere sulla libertà altrui ci penserete un po’ su prima di fare e dire cazzate.