Si è tenuta nei giorni scorsi a Montesarchio una interessante degustazione multisensoriale, evento finale del soggiorno di ricerca, studio e creazione artistica che ha impegnato Jo Burzynska per dieci giorni nel Sannio. La manifestazione, perfettamente organizzata da Nicola Carfora presso il Cristina Park Hotel, ha costituito l’occasione, più unica che rara, probabilmente a prescindere dalle intenzioni dei protagonisti, per poter confrontare tre diversi metodi, teorie e stili di produzione che declinano altrettante tipologie di vino.
Da anni ormai, imperversa l’aggettivazione del vino che non è più semplicemente più o meno buono, essendo, di volta in volta, naturale, biodinamico, biologico, eroico, arcaico, archeologico, marino (in Liguria qualcuno ha messo a invecchiare il vino negli abissi marini). Chi più ne ha più ne metta, insomma.
A Montesarchio abbiamo avuto modo di provare, tra gli altri: il SVG920 di Masseria Frattasi di Bonea, un vino che, nella logica oggettivistica in uso, andrebbe definito convenzionale, essendo prodotto secondo i criteri dell’agricoltura e della trasformazione delle uve convenzionalmente in uso nel terzo millennio. Il produttore lo definisce eroico, in quanto prodotto a partire da viti impiantate a 920 metri di altitudine, nel punto più alto della vigna; il Bianco della Cantina Giardino di Ariano Irpino, definibilenaturale, essendo prodotto secondo la libera espressione del vignaiolo “in base alla propria artigianalità, senza l’enologo e che non usa biotecnologie” (citiamo dalla pagina Facebook della cantina); il 33/33/33 della Cantina Vallisassoli, prodotto a partire da viti allevate secondo i dettami dell’agricoltura biodinamica, un sistema elaborato dall’antroposofo Rudolf Steiner all’inizio del 900, a partire dall’idea che la masseria è parte di un sistema cosmico con le cui forze deve porsi in sintonia. E’ un sistema di agricoltura che bandisce l’utilizzo di agenti chimici sui terreni e sulle piante, impiegando particolari composti (come, per esempio, il cornoletame e il corno silicio) con cui fertilizzare e curare le piante in armonia con le fasi lunari e le forze cosmiche in generale.
Le vigne da cui originano le uve del SVG 920, per la peculiare esposizione e collocazione altimetrica, necessitano di scarsissimi trattamenti antiparassitari. Sono le condizioni naturali stesse della vigna ad assicurare protezione dalle più frequenti malattie della vigna e buona vigoria delle piante: escursioni termiche, ventilazione, esposizione, composizione dei terreni. Le uve alla base di questo vino, dunque, sono una vera e sincera espressione dell’ambiente da cui provengono. Le pratiche di cantina, a giudicare dall’esame del vino, hanno rispettato la qualità del frutto e lasciato che nel vino si esprimessero le caratteristiche del vitigno e del territorio in cui è stato impiantato. L’SVG920 sarà pure convenzionale, ma si potrebbe dire anche estremamente naturale per l’espressione cristallina della natura in cui è fatto e del carattere del produttore, ardito, perspicace, vivace. In ogni caso è un vino buono, più che buono.
Il 33/33/33 si presenta d’intensità, complessità e ricchezza tali da tradurre e trasmettere la filosofia che ispira le pratiche agricole che il produttore ha scelto. Il vino non ha parola ma parla comunque. È ben possibile che il bevitore del 33/33/33 ignori i precetti complessi e l’ispirazione filosofica della biodinamica, non è possibile che sin dal primo sorso non ne catturi il fascino intricato, il pensiero articolato come fascinosa e intricata è la natura dei terreni e delle uve da cui è tratto. Si potrebbe dire naturale anche questo vino, dunque. In ogni caso è un vino buono, più che buono.
Il Bianco di Cantina Giardino è un vino che si dichiara naturale, artigianale, sincero. È un vino frutto di una grande e schietta passione che ha portato al recupero di vigne autoctone e vecchie. Un vino che viene declamato schietto, territoriale, emozionante, naturale, appunto. All’esame è un vino interessante per il colore, rientra a pieno titolo negli orange wine, ed è al gusto più semplice delle parole che si spendono per descrivere la filosofia di produzione. È un vino naturale secondo l’accezione in uso per questo aggettivo. È un vino buono, anche per la sua dolcezza.
La degustazione di questi tre vini e delle diverse filosofie produttive e condizioni produttive induce a due conclusioni decisive. La prima è il vino deve parlare non meno del produttore, deve esservi, insomma, un equilibrio tra eloquenza del vino e eloquenza del produttore. La seconda è che resta indiscussa la prevalenza dell’aggettivo buono. Il vino deve essere buono, ovvero piacevole, a prescindere dalla narrazione, dalle sovrastrutture ideologiche dei produttori e dei commentatori.