di Giancristiano Desiderio
C’è quel sonetto del Petrarca – Solo et pensoso i più deserti campi – che sempre più spesso mi viene incontro come un gentile amico che ti tende la mano nei momenti di sconforto. In verità, è dalla giovinezza che quegli endecasillabi con il loro suono e il loro ritmo, con i chiasmi ripetuti ed i monti, piagge e fiumi che sanno del dolore amoroso di Francesco e che sembrano conoscere anche le mie segrete stanze mi sono sempre stati amici fedeli, nella gioia leggera e nella mestizia gravosa. La poesia è un bagno dell’animo nostro nel quale ci caliamo per pulirci dalle forti passioni e dalle loro inevitabili delusioni per ricavare nuova forza per affrontare ancora una volta le vie aspre e selvagge in cui Amore verrà a parlare con noi, con me e io con lui.
Nella sua vecchiaia, il poeta scriveva nelle epistole, come un esercizio di controllo della scrittura e della vita, che se anche fosse vissuto ancora cento anni sempre le sue opere non sarebbero state finite e così le rivedeva in un movimento di rilettura e scrittura che lo portava a identificare vita e opera (ora è uscito il quarto volume delle lettere Res Seniles). Tuttavia, quel sonetto, solo e pensoso, ha la finitezza della perfezione, è compiuto in sé come sola sa essere e, forse, può essere la poesia nella sua lirica fatta di frammenti e bagliori, lampi e immagini che racchiudono il caldo sentimento tragico della vita nel cerchio di un’intuizione. Certo, la poesia sembra essere un porto sicuro, una zona franca, un’oasi di pace ma è una pace conquistata che nella sua bellezza ancora fa sentire il fremito delle passioni, come il naufrago che avendo conquistato la terraferma si volta indietro a scorgere il mare in tempesta. Così nei versi del sonetto si sente ancora il battere delle onde e la schiuma dei marosi della vita: Solo et pensoso i più deserti campi/ vo mensurando a passi tardi et lenti/ et gli occhi porto per fuggire intenti/ ove vestigio human l’arena stampi.
Non voglio non solo guardare, ma neanche essere visto e faccio attenzione a sfuggire i luoghi dove un’impronta umana segni il terreno, il passo. La solitudine, diceva quell’altro misuratore di passi che fu Nietzsche, è tra le peggiori la migliore compagnia. Bisogna imparare a stare con gli altri, certo; ma prim’ancora è vitale imparare a stare con sé e sapere quando è ora di colloquiare e quando è ora di stare solo et pensoso. A volta non c’è altro rimedio – altro schermo non trovo, dice Petrarca – non c’è che fuggire gli altri per evitare che si accorgano negli atti d’allegrezza spenti/ di fuori si legge com’io dentro avampi. Mio padre sapeva leggere la mia allegrezza spenta e intuiva il fuoco che mi tormentava, ma è proprio dei padri conoscere i figli al di là dei contrasti tra padri e figli che sono destinati a ricomporsi dopo il parricidio riuscito o mancato.
In quest’Italia così sbracata, in cui in piazza non ci sono i panni sporchi ma gli intestini, la solitudine ricercata dal poeta è un invito a preservare il pudore dei sentimenti. In quest’Italia così sguaiata, in cui i sentimenti sono entrati a far parte della vita civile senza il pudore di preservare la decenza del cuore, è bene forse pensare, come immagina il poeta, che la natura tutt’intorno con quest’acqua pomeridiana d’agosto, veda il mio cuore straziato di sole e di passione si ch’io mi credo omai che monti et piagge/ et fiumi et selve sappian di che tempre/ sia la mia vita, ch’è celata altrui.
L’amore, nelle sue molteplici forme, per la donna amata e sfuggente, per i figli che vanno per la loro strada, per la madre morente, ci riempiono il cuore e il nostro dovere, se abbiamo imparato a misurarlo con passi tardi e lenti, è quello di lavorarlo per aiutarlo a battere ancora per la vita che dall’altra parte del giorno ci chiama, come una notte senza vento, per vivere. La vita degli uomini, siano o no filosofi – parola che ormai non significa più niente – è il tentativo di moralizzare Amore. Un tentativo vano eppur necessario perché va fatto sapendo che se andasse realmente a bersaglio ucciderebbe se stesso giacché la prima vittima sarebbe proprio la vita che diventerebbe insensata o, peggio, sterile.
Ecco perché nonostante la ricerca della solitudine e la fuga dalle forme umane, ser Francesco non sa cercare vie così impervie e così selvagge che Amore non venga sempre a parlare con me, e io con lui, con una forza così forte da rendere necessaria anche un’attesa vuota o vana.