di Giancristiano Desiderio
L’estate di Frasso Telesino è calda, caldissima, la più calda di sempre. Giuseppe Matarazzo aveva lasciato il carcere qualche giorno fa dopo aver scontato la pena ed era ritornato a casa dalla madre e dal padre. In quegli stessi luoghi della Selva – la contrada che sale verso il Taburno – dove dodici anni fa aveva nel tempo abusato e violentato Michela, la ragazzina che nel giorno della Befana del 2008 invece di giocare con i doni si era impiccata con una corda di nylon al ramo di un ulivo distante dalla sua casa meno di cinquanta metri. In quella stessa “selva”, sul cortile della casa del padre, Giuseppe, con dieci anni di più sulle spalle e sul cuore, ormai un uomo di mezza età, non ha trovato la vita nuova ma la morte. Era appena sceso dall’auto, le ombre della sera avevano ormai sostituito le luci del giorno, forse lo hanno chiamato per nome prima di sparare con una pistola o con un fucile da caccia, lo conoscevano senz’altro, forse erano in due a cavallo di una motocicletta o a bordo di un’auto potente, forse ci sono ancora dei forse, fatto sta che dopo dieci anni di galera degli undici previsti, il pastore Giuseppe è ritornato sui luoghi dei delitti e delle pene ed è stato assassinato. Ora a Frasso Telesino, duemilacinquecento anime ai piedi del Taburno, fa tanto caldo e in strada all’ombra della Chiesa della Madonna di Campanile ci sono uomini e donne, vecchi e bambini, ragazzine e ragazzini e i fantasmi di ieri e di oggi che non sono andati via e non andranno via ancora per molto tempo.
“Frasso non è questa”, ripete come una preghiera il sindaco Pasquale Viscusi, “non è questa e siamo tutti, dal primo all’ultimo, come gettati in uno stato d’animo di angoscia e prostrazione. Ma ci facciamo coraggio e siamo vicini alla famiglia Matarazzo e diamo il sostegno alle forze dell’ordine e alla magistratura per dare una spiegazione a questo arcano”. Arcano? Sembra, invece, fin troppo chiaro il movente della vendetta, della vendetta attesa e consumata. Ma è giusto così: è giusto cioè, come dice il sindaco, “che non si entri nel merito del lavoro degli inquirenti che sanno come muoversi e la loro opera non va intralciata”. E’ giusto, come è anche giusto sapere che il ritorno del pastore che aveva abusato delle due sorelle Iorillo non era stato accolto bene. Vi era un clima pesante a Frasso, più pesante della mole del Taburno e della sua grande selva. Il pastore che conosceva quel bosco avrà avvertito la pesante aria di un’estate calda, silente e senza vento, quasi immobile come la morte. Già dieci anni fa gli animi erano provati e, del resto, il pastore si dovette difendere anche dell’accusa di istigazione al suicidio, dalla quale fu scagionato. L’uscita dalla galera si è rivelata un appuntamento con la morte. Quasi il compimento di un destino in cui l’abisso di ieri ha invocato l’abisso di oggi.
Il paese dei Gambacorta ha rivissuto ancora una volta la tragica fine di Michelina che non ebbe la forza di sottrarsi all’orco e a quell’orrido silenzio di queste storie maledette. Il 10 gennaio di dieci anni fa, nella chiesa di Santa Giuliana, c’era una piccola bara e vi giaceva la ragazzina in abito da sposa che aveva tra le mani un orsacchiotto lasciato dall’amica del cuore. La ragazzina si era forse invaghita del pastore e lui ne aveva abusato per due anni, come aveva già fatto con la sorella di Michela. Dopo un anno da quel funerale fu arrestato Giuseppe Materazzo, il pastore di trentasei anni che abitava a un passo dalla casa delle sue vittime bambine. L’indagine iniziò subito dopo che il padre di Michela, non vedendo ritornare la figlia a casa, uscì nei campi per cercarla e la trovò che pendeva dal ramo di un albero. Si cercò in ambito familiare e si ascoltò al telefono, si sentirono le amiche, i vicini e venne fuori ciò che venne fuori. Una storia che ha segnato Frasso Telesino che, come dice e prega il sindaco, “non è questa” ma non è neanche più ciò che era prima del suicidio di Michela e, ora, dell’omicidio di Giuseppe.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 21 luglio 2018