di Amerigo Ciervo
Nell’introduzione alla critica alla filosofia del diritto pubblico di Hegel, che Marx scrive nel 1843 e pubblica nel 1844 (sui Deutsch-Französische Jarbücher, gli Annali franco-tedeschi ) si ritrova la celeberrima espressione sulla religione. “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio dei popoli.”. Ovviamente il discorso marxiano è molto più complesso, va inserito nel contesto storico-filosofico del tempo e fa i conti, oltre che con Hegel, con “Ruscello di fuoco”-Feuerbach, la cui critica religiosa ruota interamente intorno al concetto-chiave dell’alienazione. Dio sarebbe il risultato della proiezione delle nostre più nobili aspirazioni. Rendendole “altre da noi”, noi ci impoveriremmo. Sicché l’unica strada per una liberazione possibile, per l’uomo, sarebbe quella che ci conduce a una riappropriazione dei nostri bisogni più alti, ovvero togliendoli all’oggetto esterno – Dio come Gegenstand – che ci siamo creati e riportandoli integralmente nella nostra coscienza. Marx recepisce la critica di Feurerbach ma ne mette, nello stesso tempo, in evidenza il carattere sovrastrutturale. In estrema sintesi: l’alienazione religiosa sarebbe determinata dalla ben più grave e dannosa alienazione economico-sociale, quella “strutturale”, ossia il frutto più avvelenato del sistema borghese-capitalistico. Abbattuta la società capitalistica, scomparirebbe anche l’alienazione religiosa. La storia, nel suo sviluppo, ci racconta che le cose non sono andate proprio così. A ben guardarci dentro, alle cose, (per la parola comprendere, il latino usa il verbo intelligere, intus legere, ossia “leggere dentro” le cose. E’ necessario sforzarsi di leggere in profondità per comprendere il mondo che ci circonda. Ma, pare che, di questi tempi, questa pratica non sembra essere la più seguita) tutto sembra essere andato diversamente.
Le profonde trasformazioni del mondo, che molti si sforzano di racchiudere nel fenomeno incandescente ma non unico (e nemmeno, a mio giudizio, il più importante: si pensi, per esempio, alla trasformazioni che si vanno palesando nel mondo lavoro a causa delle impetuose e sempre più veloci e travolgenti mutazioni tecnologiche) dell’esodo ininterrotto di uomini e donne che fuggono dalle guerre, dalla fame, dal sottosviluppo, dalle mutazioni climatiche, stanno facendo riaffiorare, una volta ancora, uno dei problemi essenziali della nostra contemporaneità. Ossia quello che si può individuare in ciò che sociologi, filosofi e teologi definiscono lo smarrimento del sacro. Come intendere altrimenti e come interpretare ciò che si legge quotidianamente sui post e tutti i discorsi che ci capita di ascoltare nelle sale di attesa degli studi medici, al bancone di un caffè, o, semplicemente, camminando per strada? E’ proprio questo, il problema che ci ritroviamo davanti, grande e pesante come un macigno: la perdita del sacro nella nostra società.
Ci fu un tempo in cui le chiese da una parte, e i partiti, con le loro ideologie, dall’altra, serbavano e si prendevano cura dei valori e dei principi su cui si fondavano le comunità.
Oggi tali fondazioni si sono completamente sgretolate. Hanno perso totalmente la loro consistenza. Già all’inizio degli anni Sessanta, il sociologo Sabino Acquaviva, che tante volte, quando fui giovane, potetti, con profonda soddisfazione, ascoltare in occasione dei corsi di studi cristiani alla Cittadella di Assisi, aveva parlato di «eclissi del sacro». Un aspetto che molto colpisce, per esempio, è come venga trattata la morte nella società dello spettacolo e dei social. Il culto dei morti è, insegna Vico, uno dei passaggi decisivi dalla ferinitas all’humanitas., E’, ormai, scaduto a pura esibizione, smarrendo ogni sacralità. E il Mediterraneo, diventato un’unica, indifferenziata tomba, ricoperta dalla fredda pietra della nostra indifferenza, è, ormai, il paradigma più evidente di tale smarrimento. Non fanno né caldo né freddo gli elenchi dei dispersi in mare. Tutt’al più impressiona, per qualche giorno, un corpicino ripescato. E neppure. Perché non pochi s’industriano a imbastire bugie e falsità, costruendo finzioni fotografiche (dal “bambolotto” alla foto di un vecchio concerto dei Pink Floyd a Venezia “venduto” come una fila di barche zeppe di gente pronta a partire per l’Italia) ed elemosinare, in tal modo, una manciata di “mi piace” per soddisfare la propria, lubrica disumanità.
Oggi, dunque, in luogo delle comunitarie condivisioni delle narrazioni e delle pratiche religiose, ci si ritrova davanti alle pesanti e talora grottesche tracimazioni di individui, ognuno dei quali, costruitasi una propria visione religiosa, si ritiene autorizzato a spiegare anche al papa e al vescovo, cosa debba essere e come debba concretizzarsi l’esperienza del sacro che, a loro parere, si estrinsecherebbe principalmente nella “difesa” a spada tratta della civiltà cristiana. Le statistiche danno numeri ancora abbastanza alti. Dichiara di appartenere alla chiesa cattolica, la maggioranza della popolazione italiana (60,1%), mentre largamente minoritari sono quanti affermano di ritrovarsi in altre famiglie religiose (islamici, buddisti, ebrei e altre confessioni cristiane: complessivamente il 6,5%). Un italiano su tre, il 33,4%, afferma, infine, di non riconoscersi in nessuna religione. L’Italia, a leggere questi dati, sembrerebbe un paese ancora popolato, quasi interamente, da cattolici. La domanda che ci si pone, a questo punto, è: Ma che Vangelo hanno letto questi ferventi cristiani? E’ un caso che proprio papa Bergoglio – a cui non pochi cristiani vorrebbero insegnare il mestiere del papa, dimentichi, probabilmente, che, secondo la dottrina della chiesa a cui aderiscono, Francesco svolge il ministero pietrino perché scelto da un gruppo di uomini “illuminati” dallo Spirito -, arrivato, per sua ammissione, dalla “fine del mondo”, su alcune tematiche sociali forti, non stia usando mezze misure? L’impressione è che, nonostante tutto – e le amare vicende di questi mesi lo confermano in pieno – il paese tutto cattolico, dove un leader di un partito xenofobo, con altissime responsabilità di governo, si presenta in comizio con una corona del rosario e il vangelo in una mano, e un’odiosa circolare nell’altra, abbia bisogno di ritrovare la strada per un nuovo incontro con il kerigma, ossia con l’annuncio del regno di Dio.
Il mandato, per l’apostolo Paolo, è chiarissimo e non derogabile. “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere, per me: guai a me se non predicassi il vangelo! (1Cor. 9,16) E nel regno di Dio, per quell’annuncio, i primi ad entrare, saranno i poveri, i sofferenti, i malati, gli esclusi, i migranti. Se ne facciano una ragione tutti quelli che vanno a battersi il petto, la domenica e gli altri giorni comandati, e poi sbraitano, a destra e a manca, su FB o mentre aspettano di tagliarsi i capelli o di rifarsi la tintura, “che loro, i negri, qui, non li vogliono” oppure “portateveli a casa vostra” o, ancora “che se li porti il papa in Vaticano”, perché l’essenza del messaggio è, in fondo, un modo radicalmente nuovo di comprensione dell’esistenza.
Per i credenti, Dio chiede agli uomini di venir fuori dalle certezze illusorie e dall’egoismo del peccato. Li spinge ad innalzare lo sguardo verso il cielo, oltre il mondo sensibile, stabilisce, con ognuno di essi, un rapporto unico e irripetibile. Il cristianesimo ha trasformato, nella sua radicalità, l’esistenza umana, offrendole un senso che, fino a quell’annuncio, nessuna civiltà aveva mai conosciuto. Amare Dio vuol dire amare il prossimo. Per cui la fede, per chi ce l’ha, è cosa estremamente seria. Certo, si può anche tornare indietro. Abiurare, abbandonare tutto e progettare una qualche “soluzione finale”. E’ già capitato e capiterà ancora. Ma, almeno, che la si smetta di dirsi cristiani. Sarebbe, viceversa, auspicabile ritrovare la strada di un vero cristianesimo. Un cristianesimo, per dirla con Bonhoffer, non religioso.