Slow Food, l’associazione fondata da Carlo Petrini trentadue anni fa, si presenta con numeri da multinazionale: nei 150 paesi del mondo in cui è presente persegue la propria mission attraverso oltre 1.500 condotte locali e 2.000 comunità del cibo, coinvolgendo milioni di persone.
Senza dubbio è il più partecipato movimento che ambisce a promuovere a partire dai comportamenti dei singoli un modello di produzione agricola sostenibile tanto dal punto di vista ambientale che sociale. La chiave del successo dell’organizzazione risiede nell’intuizione geniale di coniugare l’obiettivo macro (una produzione agricola responsabile) con comportamenti micro (dei singoli) orientati alla ricerca del piacere. Proprio attraverso la pratica consapevole della gioia del convivio, cui dedicarsi “in lento e prolungato godimento”, milioni di attivisti ritengono di poter contrastare le produzioni alimentari intensive, industriali, che impoveriscono territorio e agricoltori.
Qualche contraddizione inevitabilmente è destinata ad emergere tanto per le dimensione delle attività che per l’estendersi delle stesse in settori di business (editoria), quindi fuori dal recinto del mero associazionismo.
I numeri da multinazionale fanno si che oggi Slow Food sia un marchio la cui spendita produce reddito. Importanti sponsor non a caso sostengono le principali manifestazioni quali Salone del Gusto, Cheese e Slow Fish.
Le pratiche di Slow Food Editore, che usa a piene mani la rassicurante chiocciola, non paiono sempre coerenti con la mission dell’Associazione che formalmente rimane soggetto diverso (un po’ furbescamente reclamando la distinzione in caso di critiche).
Dulcis in fundo, nella ristorazione è sempre più diffuso un uso cattivo, sporco e ingiusto dei loghi che identificano produzioni tutelate dall’associazione attraverso i programmi Alleanza dei Cuochi, Presìdi e Arca del Gusto. Pullulano i menù di ristoranti e di pizzerie di questi loghetti slow, che sempre più spesso non trovano riscontro nel concreto uso e che vengono esposti per giustificare prezzi esosi di pietanze anonime. Non esiste, del resto, alcun controllo incisivo sull’uso dei simboli che fanno capo alle produzioni tutelate da Slow Food e da questa accreditate come di qualità. Attraverso diversi espedienti ristoratori e loro consulenti riproducono sui menù, senza riscontro nel piatto, intere paginate programmatiche di Slow Food per indurre nel consumatore l’idea di un locale attento alla qualità e alle tematiche slow e a ben predisporsi al proprio salasso in nome della ragion di Bra.
Tollerare o ignorare gli abusi significa essere conniventi con gli impostori e infischiarsene delle tasche degli avventori. Asserire, come abbiamo sentito a volte, che debba essere il consumatore a saper discernere è ignavia. Non può pretendersi che tutti abbiano occhio e palato educato a riconoscere i singoli prodotti. Nemmanco, infine, va trascurato l’aspetto diseducativo che si genera quando un mangiatore poco esperto sia convinto dall’artefatta immagine creata dal menù farlocco di assaggiare un San Marzano mentre invece sta ingurgitando una pummarola cinese.
Slow Food deve assumere una responsabilità coerente al proprio rilievo e alla propria credibilità, agendo attivamente per assicurare la correttezza d’uso dei propri marchi. In caso contrario il sospetto che si chiuda un occhio perché anche l’abuso aiuta a diffondere il marchio (e far crescere il business) diverrebbe fondato. D’altronde ove si fosse incapaci di garantire affidabilità ben si potrebbero ritirare i marchi dall’uso di qualsiasi locale aperto al pubblico, ivi inclusi quei tanti, comunque minoranza, onesti e riconosciuti.
Nel corso del trentennio di attività l’associazione ha manifestato una capacità senza pari di rispondere ai mutamenti economici, sociali e ai nuovi stili di vita, adeguando, fermi restanti gli obiettivi, le proprie azioni strategiche, calibrando opportunamente le iniziative territoriali e la comunicazione.
E’ giunto il momento che anche l’aspirante gastronomo slow sia tutelato da rigide politiche di controllo sull’effettivo impiego delle materie prime certificate dalla chiocciolina e dunque sull’uso di quei marchi.
Caro Antonio accostate la parola “multinazionale” a Slow Food crea un bel titolo roboante che invita alla lettura, ma per come ti conosco e stimo non hai bisogno di utilizzare questi “trucchetti” del mestiere. È vero Slow Food è sempre più una associazione globale che in tutto il mondo coinvolge migliaia di volontari che gratuitamente cercano di contrastare sistemi economici e della produzione di cibo iniqui e ingiusti di cui si rendono protagoniste proprio le multinazionali cui tu ci accosti. Inoltre parlare di multinazionale fa subito pensare a bilanci a tanti zeri, ma ad un osservatore attento come te non può sfuggire che il bilancio di Slow Food è circa 1/40esimo della media di altre organizzazioni simili sia di caratura nazionale che internazionale. Rispetto ai loghi ci tengo a precisare che non è mai consentito utilizzare il logo dell’associazione su un prodotto commerciale o nella comunicazione di un esercizio commerciale e prego te e i tuoi lettori di segnalare sempre ogni tipo di abuso in tal senso. Per quanto riguarda gli altri loghi, quelli relativi ai progetti, ritengo essi siano scarsamente conosciuti e dunque anche se utilizzati impropriamente non penso riescano a generare vantaggi “misurabili”. Sulla questione dei controlli infine consentimi di dire che oltre ad essere una questione di capacità è ancora di più una questione culturale quella che ci induce a volerci ostinatamente orientare a sistemi dove la fiducia e la partecipazione siano gli elementi di reale garanzia per il consumatore. È infatti tutta italica l’attitudine a dover definire strutture di controllo e poi di controllo dei controllori e così via in una escalation che in altri ambiti ha causato solo corruzione e clientelismo.
Del resto anche sistemi più complessi e rilevanti del nostro (biologico) si stanno orientando verso un approccio che valorizzi maggiormente l’autocontrollo e la certificazione partecipata.
Ringraziandoti per l’occasione che mi hai dato per chiarire alcune questioni che mi stanno a cuore, ti saluto caramente.