di Guido Bianchini
All’indomani della sconfitta della Nazionale nello spareggio delle qualificazioni contro la Svezia, punto più basso della nostra storia pallonara recente, tutti gridavano allo scandalo. Una tragedia nazional-popolare sembrava essersi consumata dinanzi a occhi tanto impotenti quanto increduli. Subito si è partiti con la caccia alle streghe, ma in fin dei conti nessuna testa in alto è saltata, si è sacrificato sull’altare della patria solo Ventura e attorno al suo capezzale si è assistito soltanto ad un valzer di poltrone, senza nessun sostanziale cambiamento nella gestione di un patrimonio calcistico, giunto al suo acme nel 2006 e disperso troppo in fretta, per manifeste incapacità programmatiche.
Il calcio però mal sopporta il lutto, non lo elabora mai a dovere. La macchina desiderante che rotola appresso ad un pallone non si arresta di fronte a nulla, è programmata per stimolare emozioni fugaci a buon mercato, soprattutto quando possono servire a rattoppare alla meno peggio una situazione a rotoli. Cos’è stato l’ultimo tratto della corsa al tricolore se non una gigantesca pezza a colori, una toppa vistosa e quasi pretestuosa per non fare i conti col fallimento? Eppure la stessa forma sferica dell’oggetto principe dello sport più amato al mondo, avrebbe dovuto ricordarci che per quanto avremmo voluto eludere la questione, spazzando la palla più lontano possibile, l’ andamento stesso del gioco prevede l’ineludibile rimbalzo e ritorno del pallone, senza il quale non ci sarebbe partita.
Un ritorno obliquo, coerente con un oggetto che non ha la perfezione e la sicurezza del cerchio, anzi sembra sfuggirle di continuo, disegnando traiettorie imprevedibili. Lo stesso gesto della punizione, simbolo della creatività calcistica e dell’estro di un piede fatato, sarà sempre memorabile perché osa sfidare le geometrie del gioco, i rigidi tatticismi e persino le leggi gravitazionali, pur inscrivendosi in esse. Questo Mondiale d’altri potrebbe essere letto infatti come una punizione collettiva per i pallonari d’Italia. Nel duplice senso di una parabola discendente inattesa, da raccogliere in fondo al sacco ormai vuoto delle aspettative, e di un contrappasso morale, in cui con l’astinenza azzurra si espiano “colpe” altrui. Proprio come una punizione alla Pirlo, sembra di essere colpiti da un tiro mancino chirurgico, che partendo dal basso sembra puntare in alto, quasi a voler svegliare con una pallonata maldestra le teste gloriose dei burattinai burattini della Lega Calcio e invece la parabola d’improvviso scende e si insacca nell’angolino basso, dove il portiere non può arrivare e in tal modo la mette nel sacco a quanti sognavano Notti Magiche scritte in cirillico.
Da qui a metà luglio saranno invece solo notti ipotetiche, in cui i rimpianti si mescoleranno a teoremi calcistici, ancor più surreali del solito, non avendo alcun dato reale su cui fare leva, nessun fatto italiano da interpretare presuntuosamente all’italiana. Saremo spettatori non protagonisti, né comprimari, né tantomeno comparse e meteore di una storia non nostra, cui fingeremo di interessarci, pur di avere qualcosa da dire o da scrivere. Chiacchiere su fatti d’altri, litanie da pettegoli da pianerottolo, tanto inutili quanto volatili, nell’attesa, poco fiduciosa viste le premesse di questi mesi, che l’essere costretti a spiare da lontano nelle case d’altri, spinga a cambiare logiche, priorità e figure di vertice in casa nostra. Il confino dalla steppa russa dovrebbe essere uno sprone ad un cambio di rotta non più solo auspicabile, ma inevitabile se si vuole scongiurare il pericolo, non così remoto, che anche il vento caldo del deserto ci diventi avverso e non arrivi a lambire le maglie azzurre nel prossimo mondiale al profumo di petrodollari.