di Billy Nuzzolillo
Johan Cruijff non è solo il simbolo del “calcio totale” ma anche il personaggio che ha incarnato la filosofia stessa del gioco del calcio e contribuito a cambiare il volto della società olandese.
“Lo amavo, così e semplicemente. E continuo ad amarlo perché non basta morire per non essere più amato. Johan Cruijff si è guadagnato, come un eroe antico, l’immortalità sui campi di calcio”. Esordisce così Giancristiano Desiderio nel capitolo dedicato al calciatore olandese all’interno del libro “La selva. Un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta” (Rubettino). Un testo che si propone di smascherare “l’idea più cretina di tutte: che ci sia un rifugio per ripararsi dalla Tempesta”. Il rifugio che si invoca, spiega Desiderio, è inesistente, fino a quando lo si cerca in un luogo “che non sia la nostra anima”.
E nell’anima del saggista di Sant’Agata dei Goti, tra filosofi e pensatori vari, un posto speciale è riservato proprio all’olandese volante che ha rappresentato al meglio l’essenza del calcio, ovvero il controllo e l’abbandono, “perché se non si può passare la palla non si può giocare”.
Un concetto, del resto, sottolineato più volte dallo stesso Cruijff, secondo cui “il calcio è ricevere la palla e saper passare la palla”, e ripreso da Giancristiano Desiderio: “Un grande giocatore, che sa giocare sia con la palla sia senza la palla (come Falcao), sa prima di tutto cos’è il gioco ossia la condizione nella quale si trova. In campo, nella vita. La definizione di Cruijff ci dà non solo il calcio ma anche la vita: controllo e abbandono, ecco tutto ciò che conta. I filosofi sono impazziti per cercare una ridefinizione dell’essere che non si lasci ridurre a razionalità strumentale, ma se avessero visto giocare Cruijff e lo avessero ascoltato avrebbero ottenuto prima il loro scopo e si sarebbero divertiti come bambini che giocano a pallone”.
Ma la valenza del personaggio Johan Cruijff va ben oltre il calcio e gli aspetti filosofici evidenziati da Desiderio, come dimostra lo scrittore e giornalista inglese David Winner nel libro “Brillant Orange. Il genio nevrotico del calcio olandese” (Minimum Fax). Agli inizi degli anni Sessanta, infatti, l’Olanda era tra i paesi più arretrati del vecchio continente. “Poi abbiamo vissuto una rivoluzione culturale, politica e sociale, di cui Johan Cruijff è stato il principale esponente, e siamo diventati una delle nazioni più avanzate e progressiste in Europa”, spiega il giornalista Hubert Smeets all’interno del libro di Winner.
Un po’ come John Lennon in Inghilterra, Johan Cruijff rappresentò una sorta di modello, perché rispecchiava il modo di pensare di un’intera generazione, quella della famosa rivolta dei Provos. “Fu il primo giocatore a capire di essere un artista e anche il primo che volle e fu in grado di collettivizzare l’arte dello sport – spiega ancora Smeets -. Rese chiaro a tutti che per ottenere qualcosa a livello sportivo si deve combinare individualismo e collettivismo. Che poi, in un certo senso, era la dottrina principale degli anni Sessanta. Tutti gli altri esageravano in un senso o nell’altro. Il collettivismo sfociò nel comunismo e in tutta quell’altra roba sinistrorsa. Molti individualisti si persero in India o in Nepal. Solo Johan Cruijff era in grado di combinare entrambe le tendenze e non ha mai smesso di farlo ”.
Era antisistema ma, paradossalmente, aveva un sistema, basato sull’individualismo creativo che, a sua volta, si inseriva in un calcio che – come sottolinea lo stesso Winner nel suo libro – era caratterizzato da una spiccata predisposizione alla democrazia, “un equilibrio perfetto tra responsabilità collettiva, uguaglianza e individualismo”.
Insomma, Johan Cruijff è stato molto più che il simbolo del “calcio totale”. E’ stato semplicemente il calcio nella sua accezione più completa e rivoluzionaria.