di Guido Bianchini
Il neonato Governo Conte, uno dei più travagliati della nostra storia repubblicana, forse sarà ricordato da subito come uno dei più di discutibili, nel senso che ha dato la stura a discussioni e analisi fiume, ancor prima di poter consegnare atti politici da porre al centro del dibattito. All’attitudine, tipicamente italiana, di far precedere l’interpretazione ai fatti, si è aggiunto, però, un altro vizio di forma, potremmo dire originario, perché sottovaluta l’origine della prassi politica nella sua forma, prima ancora che nella sostanza. I fari sono stati puntati sui nomi degli uomini di potere, sulle loro provenienze ideologiche, sottovalutando la configurazione formale del costituendo governo. Si è guardato ai ministri e non ai suoi ministeri, indice del fatto che la nostra politica fatica a non essere personalistica e non si interessa alla sistemazione dello scacchiere, prima di pensare al ruolo strategico dei singoli pezzi. Il discorso complessivo da fare sarebbe troppo lungo, sebbene necessario, soprattutto per capire cosa cambia, già nel gioco di scatole cinesi di un duopolio, giunto al potere sulla spinta di venti di cambiamento, meritevoli di essere seguiti per individuarne la direzione. Non avendo pretese onnicomprensive, troppo titaniche e premature, limiterei lo sguardo al Ministero della famiglia e delle disabilità, se non altro perché lo stato sociale (non la band che permette acrobazie alla terza età) è da sempre un problema politico spinoso e irrisolto. Ci si sta focalizzando eccessivamente sulle convinzioni di Fontana, senza interrogarsi sul senso stesso del suo dicastero, indice di un’idea di sociale e di socialità di cui il ministro dovrà farsi interprete.
La prima cosa cui verrebbe da pensare è che l’istituzionalizzazione della questione della disabilità, sia espressione di un interesse nuovo, nell’ottica del cambiamento. È innegabile che spesso la disabilità sia stata ed è tuttora fuori dall’agenda politica, a meno che non si incarni nella scelta di una persona disabile che assurga a simbolo personalistico di un interesse fittizio da dare in pasto ai media per sembra anime belle (si pensi alla travagliata vicenda di Guidi con Berlusconi). La non esistenza istituzionale alimenta il senso di marginalità sociale che spesso marchia e segna i disabili e le loro famiglie. Il grido di giubilo dovrebbe dunque essere unanime, nella convinzione fin troppo ingenua che finalmente la politica se ne preoccupi in modo specifico. Il sussulto di speranza si affievolisce però se si pensa al perché la questione sia entrata in agenda e poi al come .
La campagna elettore, dimenticata troppo in fretta per lo stallo successivo, lo ha mostrato in maniera lampante. Lega e M5S, presentandosi come interpreti del popolo arrabbiato, tradito, incompreso e escluso dalla politica di palazzo e di tecnicismi hanno catalizzato consegni non semplicemente trasformando quel “popolo” in un pugno chiuso contro il sistema, ma facendo leva sul disagio e sulla frammentazione sociale, dando alla rabbia un nemico cui opporsi uniti. E quale maggiore simbolo di disagio sociale può esservi di una persona in sedia a rotelle?. L’esasperazione può essere acuita per essere cavalcata meglio con la semplificazione evocativa di un “meme” con l’immigrato baldanzoso con il suo smartphone e i suoi trenta euro da contrapporre al disabile chiuso in casa con la sua pensione irrisoria.
Due gesti denigratori in un sol colpo: rappresentazione pietistica della disabilità e nemico esterno cui ascrivere la responsabilità del disagio. Per semplificare l’interesse per i vari gruppi sociali in sofferenza nascondeva, già in fase di accattonaggio elettorale, una visione esclusivista, da divide et impera, utile a creare consenso. L’attuazione, il come si pensa ad una politica della disabilità, è coerente con tale logica, proprio attraverso la costituzione di un ministero ad hoc. Il passaggio è sottile, ma decisivo. L’esclusione da cui attingere per il consenso diventa esclusività. Da simbolo di marginalità negativa diventa simbolo particolare, tanto speciale da meritare un luogo ad hoc. Si potrebbe pensare il tutto in termini urbanistici: dalla periferia vi portiamo al cento, ma quel centro è solo vostro, perché i vostri problemi meritano di essere trattati a parte. il disabile è collocato finalmente in agenda , ma il suo spazio politico è sempre pensato come escludente, con i canoni del ghetto, magari abbellito dall’esclusività da club privè . È ciò che accade quando, ad esempio, si pensano i settori per gli invalidi in molti stadi italiani: c’è un settore preposto, magari a ridosso del terreno di gioco, ma sempre preposto solo a disabili e accompagnatori. La retorica della specialità, dietro un’ apparente giustezza e positività di forma, cela un vuoto di sostanza. L’essere considerati speciali è un modo bello e pio per creare una barriera, per rafforzare uno stereotipo simbolico che mette distanza, allontana dal centro della questione. È come dire al disabile non mi rifiuto di entrare in contatto con te, non sei certo sporco, ci mancherebbe, sei solo troppo bello, troppo delicato e fragile, degno di una carezza bonaria per imbonirti.
E se l’abbattimento di questa barriera culturale (ben più dura di quelle architettoniche, cui spesso si riduce la questione per lavarsene le mani) nel privato è affrontato a fatica dal disabile in prima persona e da chi comprende il suo diritto ad un’ esistenza reale, non stereotipata, al netto dei limiti non limitanti; nel pubblico è ancora più ardua perché lo stereotipo non è solo relazionale, ma sistemico, fa passare il diritto per concessione, la cui attuazione concreta debba passare per la sensibilità di chi è preposto a semplificare la vita del disabile, per rendere anche a sua misura, non uno spazio ad hoc, ma lo spazio sociale comune. Uno spazio più a misura di cittadino (come accade nella tanto bistrattata Europa nel Nord, la vecchia Mittleuropa in cui la Germania non è solo lo stato dei fustigatori dell’ economia, ma dell’inclusione sociale regolamentata e attuata ad ogni livello della vita sociale), diventa in automatico uno spazio a misura di disabile. Pensare ad una politica per la disabilità in tal senso può e deve prescindere persino dalla specificità del disabile, perché vede in lui soltanto una forma “altra”, per questo non riducibile a stereotipi esclusivi, delle tante differenze che devono convivere e interegire in una comunità. La politica è con- divisione, mediazione continua di differenze specifiche in vista di un progetto comune.
È ancora presto per dire se questo progetto ci sia o meno e quale sia nel concreto, solo la prassi politica potrà mostrarlo, ma non si può non notare la difficoltà strutturale ad abbandonare un’ idea del politico fondata sulla divisione, al punto tale da sentire il bisogno di istituzionalizzarla. Il rischio, carico di conseguenze politiche, perché è in gioco la credibilità di un governo, cui siamo stati giocoforza affidati, è che l’intenzione positiva di voler pensare una politica per la disabilità, riveli sul lungo periodo una scarsa abilità politica generale, un’incapacità di avere una visione d’insieme, un paradossale handicap sistemico, nell’accezione limitante del termine, per il quale non basterà di certo un ministero ad hoc.