di Nicola Ciaburri*
In seguito all’incontro – a cura dell’Associazione Storica Valle Telesina – nell’abbazia benedettina di S.Salvatore per la presentazione del mio libro (“La forma come resistenza sismica – Una città ricostruita dopo il terremoto del 1688” – ed. TetaPrint) ho appreso che alcuni (e solo alcuni) hanno male interpretato alcuni concetti da me espressi (sicuramente per mia incapacità comunicativa).
Ho cercato di fare una distinzione fra il concetto di città sismoresistente (città costituita da edifici con capacità di non subire danni dal terremoto) e città antisismica (città in grado di avere aree urbane che continuino ad essere funzionali dopo un sisma – concetto molto attuale e contemporaneo che informa la struttura urbana in Cerreto).
Non è questione di lana caprina perchè influenza l’atteggiamento da assumere per un’educazione alla difesa dai terremoti. Nel primo caso si può stare tranquilli, nel secondo si deve fare di tutto per intervenire sulla vulnerabilità del paese prima che un sisma accada.
Non ho mai affermato (oramai da trent’anni) che Cerreto sia stata ricostruita con edifici sismoresistenti, anche se presenta elementi di sismoresistenza (vedi libro sul laboratorio di progettazione del 1988). Pertanto continuo ad essere in disaccordo con chi afferma il contrario, sostenendo che Cerreto abbia ben resistito al sisma dell’Irpinia del 1980, grazie al fatto che risulta essere ‘antisismico’ (v. interviste televise e testo ‘il DNA degli italiani’ di M.Tozzi ).
A dimostrazione della vulnerabilità di Cerreto – sin dal periodo della sua nascita- si considerino gli effetti del terremoto del 1805 (avvenuto ad appena mezzo secolo dal completamento dei lavori di ricostruzione e con epicentro in provincia di Campobasso e quindi ad una sessantina di chilometri di distanza): il terremoto nel nostro paese provocò sei vittine e crolli (un’abitazione e parte della chiesa dei Padri conventuali di S.Antonio).
Non si può sottacere, infine, della scarsa qualità dei terreni sui quali insiste il paese, né va sottovalutato il rischio di frane dei versanti che affacciano sui torrenti che delimitano l’area urbana. Il sedime delle fondazioni è composto da terreni sciolti che, per di più, sono di diversa natura nella parte alta del paese rispetto alla parte bassa.
Mi pare, inoltre, che sia opportuna un’altra precisazione relativa alla paternità culturale della struttura cerretese. La forma della città e il rigore degli edifici sono sicuramente figli della cultura architettonica napoletana a differenza dei paesi della Val di Noto che fanno riferimento alla cultura barocca romana. Questo però non significa che sia ascrivibile all’azione di ingegneri pontifici nè ad ingegneri del regno dei Borbone, per semplici considerazioni geopolitiche e temporali.
Nel 1688 dunque (data del terremoto) Cerreto faceva parte del viceregno spagnolo ed era feudo dei Carafa, e dunque non apparteneva al ducato di Benevento, enclave pontificia nel viceregno. Nel periodo della piena ricostruzione (dopo il 1713 e fino al 1734) ha fatto parte del vicereame austriaco. Infine il completamento degli edifici più importanti è avvenuto sotto Carlo III di Borbone e i suoi successori. Si può così tranquillamente affermare che la concezione di Cerreto e della sua struttura urbana risalgono al periodo del vicereame spagnolo. Sono pertanto di cultura napoletana e nulla hanno a che vedere con lo stato pontificio e i Borbone.
Se vogliamo fare un servizio alla nostra collettività dobbiamo prendere coscienza della nostra vulnerabilità, non cercare visibilità a tutti i costi (allentando il controllo sulla manutenzione e sulla manomissione del costruito).
Quanto detto non per alimentare inutili polemiche, ma per la crescita civile della nostra cittadina.
* architetto e autore di varie pubblicazioni sulla struttura urbanistica di Cerreto Sannita