di Giancristiano Desiderio
Il Napoli sale a Torino che non ha nulla o quasi da perdere e stringe per 90 minuti una Juventus da catenaccio nella sua area di rigore. Vince con Koulibaly e ritorna a Napoli con il sole in fronte. Quindici giorni fa, anche se la squadra di Allegri aveva un punto in più, la favorita per lo scudetto era la squadra di Sarri. Più facile il calendario, più forte la motivazione. Poi è accaduto quel che è accaduto. Prima il derby d’Italia in cui l’Inter fa l’Inter vincendo 2 a 1 fino all’87° e perdendo 3 a 2 al 89°, poi la disfatta di Firenze in cui il Napoli va per suonare e ed è suonato da una squadra machiavellica furba come la volpe e forte come il leone. Tutto finito? Non ancora. La matematica tiene il Napoli ancora in gioco e il Napoli preferisce uscire di scena davanti al suo pubblico al San Paolo facendosi rimontare due volte dal Torino di Mazzarri che a tratti dà l’impressione di non voler infierire su un ciuccio che per buona parte del campionato ha dato lezioni di calcio e ora è sfinito da una fatica invidiosa di Sisifo. La sconfitta partenopea è tutta qua: in due partire la Juventus fa 6 punti, il Napoli 1. E ora le ultime due partite sono soltanto centottanta minuti di rimpianti. Come è possibile? Forse, perché a volte le cose non ce le raccontiamo bene.
Per capirci qualcosa nella “questione napoletana” c’è da fare un esercizio di critica storica rinunciando alla retorica. E’ necessario distinguere res gestae e historia rerum gestarum: i fatti accaduti e la narrazione che si è fatta dei fatti. I fatti accaduti – res gestae – ci dicono che il Napoli è crollato. La narrazione che si fa degli accadimenti – historia rerum gestarum – nasconde il crollo e cerca alibi inesistenti che sono, di volta in volta, il “capitalismo di relazione” della società juventina, la sudditanza psicologica degli arbitri – venduti e cornuti, in pratica – una teoria del complotto con discorsi da Var al cospetto dei quali i discorsi da bar di un tempo sono la Critica del giudizio, la solfa di origine gramsciana del Nord rapace e sfruttatore di un Sud che farebbe bene a riscoprire la sua anima brigante e altre scemenze del genere con De Magistris che gioca a fare il Che e Marx a tempo scaduto. In sostanza, ciò che è sbagliato nel Napoli non è il Napoli, che ha fatto un signor campionato, ma il giudizio sul Napoli che è distorto da elementi extracalcistici – allotri direbbe un grande napoletano, ossia estranei – che creano o confusione o miti. E’ come se il Napoli, che a tratti fa un gioco quasi olandese a metà strada tra Cruyff e Spinoza, non avesse un giudizio alla sua altezza perché i tifosi e i teorici del calcio vesuviano invece di rivalutare la tradizione critica del loro gioco, da Giordano Bruno a Bruno Giordano, dalla fantasia poetica di Vico alla fantasia calcistica di Diego, passando per gli hegeliani di Napoli fino a Croce, sono attardati su un vetero-marxismo che in attesa di fare la rivoluzione del gol mancante mente sulla falsa coscienza della classe calcistica dominante. Se non si esce da questa impostura ideologica, il Napoli non avrà mai ciò di cui oggi necessita più di ieri: una critica calcistica all’altezza del suo gioco.
Di quanto detto c’è una prova schiacciante. La teoria marxista-napoletana espressa dopo la sconfitta di Firenze. Il tifoso napoletano ha ragionato così: il Napoli ha perso 3 a 0 perché Orsato, che arbitrava Inter – Juventus, è venduto (e cornuto). Che, come si capisce, è un evidente non-senso che, però, per il tifoso napoletano che usa persino a sua insaputa categorie marxiste ha un senso in quanto si tende a trovare un alibi ad una sconfitta. E l’alibi suona così: se Orsato avesse espulso Pjanic, la Juve avrebbe perso e il Napoli sarebbe comunque a un solo punto. Come si può capire non è un giudizio calcistico ma un equivoco culturale secolare giacché se la Juve avesse effettivamente perso, il Napoli non avrebbe dovuto avere un punto in meno ma due punti in più ossia avrebbe dovuto vincere e non perdere contro la Fiorentina. Perché chi vuol vincere un campionato deve prima di tutto puntare sulle sue vittorie e non sulle sconfitte altrui. Tanto è vero che la scena si è ripetuta una settimana dopo. E così veniamo al Toro.
Al San Paolo contro il Torino è andata in scena ancora una volta una squadra che fa possesso palla ma non gioca e, soprattutto, non conclude in porta. Quando poi il possesso scema, la palla il Napoli se la ritrova nella sua porta. Sirigu non ha fatto una sola parata, Mertens ha segnato su pressing e non su azione di gioco, il Napoli non ha saputo chiudere la partita come avrebbe dovuto ed è stato ripreso, quindi c’è stato il gran gol di Hamsik davanti al quale – uomo e giocatore – giù il cappello e ancora la rimonta del Toro con un Napoli sempre in affanno e in perenne rincorsa. Il gioco del napoli si è inceppato sulla trequarti per assenza di centravanti. Per un certo periodo questa assenza è stata una risorsa poi, scoperto il gioco, è diventata un problema senza soluzione che neanche Milik ha potuto risolvere in extremis, in punto di morte (calcistica).
La verità, dunque, tolti i pregiudizi marxisti, è figlia del tempo del campo hegeliano: il Napoli ha perso giocando a calcio e ha perso il campionato soprattutto in tre partite: con la Roma in casa, con la Fiorentina all’Artemio Franchi e ancora in casa con i granata. Dinanzi a questi fatti, il marxismo napoletano cosa fa? Invece di rivedere la teoria rivede i fatti, li cambia, li camuffa. Così è accaduto dopo Firenze, così accadrà anche dopo il Torino. Ma è un errore, grave. Perché la verità, tanto più la verità del Gioco, non è mai un’imposizione ma un più bello e necessario riconoscimento di quanto accaduto. E’ una forma di liberazione, forse l’unica.