di Amerigo Ciervo
Mi dispiace molto doverlo ammettere, ma con la lettura che Giancristiano Desiderio dà delle ultime vicende calcistiche non concordo affatto. Dalla prima riga all’ultima. Partirei proprio dalla fine. Se una cosa abbiamo dovuto subito apprendere, noi tifosi del Napoli, fin dall’inizio della storia della nostra società, è proprio saper perdere. In novantadue anni di vita, il Napoli ha vinto solo due volte. Parliamo di scudetto, ovviamente, a cui aggiungeremo un po’ di coppe Italia, una supercoppa italiana e una coppa UEFA. Nulla, in confronto ai grandi squadroni del Nord. Che, giustamente, mietono allori e tifosi anche in casa nostra. Eppure, nonostante tutto, noi “napoletani”, continuiamo a vivere, in amorosa simbiosi, con questa squadra perennemente perdente.
E la prova che abbiamo subito imparato a saper perdere? Ve la offro subito. Si narra che, un certo giorno del 1927 – Il Napoli era stato fondato l’anno prima da un industriale ebreo, Giorgio Ascarelli, a cui, post mortem, i napoletani vollero intitolare il campo sportivo che lo stesso Ascarelli aveva fatto costruire a proprie spese. Qualche anno più tardi, sarà necessario ricordarlo, il fascismo pretese che il campo, che s’era chiamato Vesuvio (ahi!), mutasse nome e diventasse Stadio Partenopeo, a causa delle origini ebraiche del presidente-fondatore -, visto il primo, deludente campionato della neonata squadra partenopea, nel bar dove si ritrovavano i tifosi, uno di questi, profondamente esacerbato, se ne sia uscito con il seguente, tranciante giudizio: “’Sta squadra nosta me pare ‘o ciuccio ‘e Fichella: trentatré piaghe e ‘a coda fraceta”. Chi fosse questo Fichella non è dato sapere. Certo è che, da quel giorno l’asino divenne il nostro simbolo. Lo era già del Partito Democratico. (Quello statunitense, s’intende.)
Come si vede, il destino della sconfitta è rintracciabile nel DNA stesso del Napoli e i tifosi appassionati – quorum ego – lo sanno bene, e, fin dai primissimi giorni, infelicemente consapevoli, si attrezzarono a gestire il non semplice problema con l’ironia, ossia con l’unica arma, la più sottile, ma anche la più perfida, a loro lasciata in eredità, con il mito di Partenope, dai Cumani, i discendenti degli Eubei che avevano fondato la Nea-polis, nell’ottavo secolo a. C., in quello spicchio di paradiso che tutti sappiamo.
I rilievi tecnici di Giancristiano lasciano il tempo che trovano. Che il gioco del Napoli sia inconcludente mi pare una vera boutade. Nell’ultimo mese, può darsi. Ma gli ultimi tre anni? Ce li siamo dimenticati, gli ultimi tre anni? In ogni caso i rilievi ci sono tutti. Il Napoli, a Torino, sostiene Desiderio, giocò male. E’ anche la tesi di Allegri. Io non sono d’accordo, tuttavia prendiamola per buona. Ma, per la verità, dovremmo dire che la sua avversaria, con una rosa migliore, più ricca e, davanti ai suoi infoiati tifosi, abbia giocato anche peggio. O, forse, non abbia giocato proprio. E il volo del nostro bellissimo angelo nero, nell’ultimo minuto utile, è parso a molti come la giusta punizione di Eupalla. Citerò, a tale proposito, un nostro classico: Questa Lega è una vergogna/Noi crediamo alla cicogna/Viva, viva ‘o Senegal. Ma – e noi, Giancristiano, lo sappiamo bene – la religione calcistica potrebbe essere anche solo una proiezione dei desideri più nobili della nostra coscienza che vengono riversati in un oggetto altro, estraneo, che ho chiamato, alla maniera di Gianni Brera, Eupalla. Sicché sarà necessario lasciare da parte la poesia, e andare a leggerci un po’ di prosa. E qui mi meraviglia come il mio amico Desiderio trascuri proprio uno dei risultati più chiari delle sue analisi, condotte con gli strumenti acuminati di cui dispone, sulla realtà economico-politica dell’Italia, ovvero la completa assenza, nella storia e nelle vicende del nostro paese, di una prospettiva realmente, sostanzialmente liberale e della conseguente, ingombrante presenza di un asfissiante statalismo. Se utilizzassimo questo criterio, dovremmo ricordare che il nostro capitalismo, per esempio, s’è spesso servito degli aiuti di stato. Si sono incassati gli utili e sono state socializzate le perdite. Da noi, anche per “cacciare” un certificato di nascita al comune, sarà prudente trovarsi un amico o, al massimo, un conoscente. “Sai parlare tedesco”, chiede Peppino a Totò. “Ho avuto un amico prigioniero in Germania”, gli risponde il principe, davanti all’incuriosito “ghisa” milanese.
Allora la domanda che mi pongo (e pongo a Giancristiano) è: ma se il paese è questo, sarà possibile immaginare un calcio al di fuori di tali, consolidati paradigmi? Se crediamo alla cicogna, dovremo concludere che sì, che il calcio sia immune da simili pratiche. Io, però, ho smesso da molto di credere alla cicogna. E alcuni indizi, di solito, costituiscono una prova. Ieri, il Mattino di Napoli, in uno specchietto riassuntivo, di indizi ne metteva insieme undici. Sempre a favore dei soliti noti, in un gioco, splendidamente corale, della squadra arbitrale. Decisioni non di un solo arbitro, ma di ben otto arbitri diversi. Sono indizi, d’accordo. In ogni caso, alla maniera andreottiana, facciamolo questo peccato e pensiamo pure male. L’ossequio verso il potere – reale o fittizio – che gli italiani hanno messo in mostra, nel corso della loro storia secolare, non credo sia un’invenzione. O un alibi. E il mondo del calcio è un luogo, dove, da un po’ di anni, ci passa davvero di tutto. Soprattutto ci passa molto danaro. E, si sa, dietro grandi fortune capita molto spesso che si celi qualche crimine. L’unica tesi che condivido, della nota di Giancristiano, è la stima – che è anche la mia – nei confronti del Benevento e dei suoi tifosi. Ma il compostissimo comportamento ritengo si possa spiegare ancora con lo stupore meraviglioso che continua sulla scia della doppia, miracolosa promozione. Credo che i tifosi sanniti abbiano però già sufficientemente compreso che aria tiri, dal lato della presunta giustizia sportiva. Al di là del loro encomiabile aplomb, dovessero ripetersi ancora tanti piccoli o grandi episodi, non penso se ne rimarrebbero felici e sereni. Insomma, caro Giancristiano, nessun alibi. Come già detto, abbiamo sempre risposto con ironia, ai cori razzisti e agli errori arbitrali. Con Shaekespeare, addirittura. Sappiamo come vanno le cose, nel bel paese. Quando attraversano certi cieli, i miti passeri, in nero o in giallo, si mutano in avvoltoi feroci. L’arbitro mi sembra una della personificazioni meglio riuscite del caporale di Totò. E le cose non cambieranno, perché è di questa materia che siamo fatti. Ma, l’unica cosa di cui vi preghiamo è che non ci chiediate anche di accettarle supinamente e di porgere l’altra guancia. Selvaggi sì – saremo anche selvaggi, agli occhi dei savoiardi – ma fessi no. E comunque, sia sabato che domenica sera, ho dormito profondamente. Pure meglio del principe di Condé, prima della battaglia di Rocroi.