di Giancristiano Desiderio
Luigi Di Maio ha escluso ogni accordo di governo con Silvio Berlusconi non per motivi politici ma per ragioni aziendali, si potrebbe dire. Infatti, Di Maio è senz’altro una “creatura” della Casaleggio e Associati ma è anche un nipotino di Berlusconi. Il suo insistere in modo maniacale su alcune formule come “governo del cambiamento”, “repubblica dei cittadini”, “contratto di governo” o con gli italiani è di schietta derivazione berlusconiana. E non si tratta solo di somiglianze lessicali. Proprio Berlusconi è stato il primo a riferirsi “direttamente” agli italiani, al popolo, alla gente e questo “filo diretto” con gli italiani è lo stesso tentativo di bonapartismo che ora pratica Di Maio usando la parola d’ordine della Terza Repubblica come è stata concordata dal direttorio Casaleggio Grillo Di Maio. Ma oltre alle formule lessicali e al populismo c’è anche un terzo elemento che accomuna Di Maio a Berlusconi: l’azienda. Il partito berlusconiano, Forza Italia, nacque facendo affidamento su Publitalia e sul gruppo televisivo; il Movimento 5 Stelle è sorto dall’idea e dalla volontà della Casaleggio e Associati, l’azienda informatica che è la vera mente del movimento grillino con cui si costruisce con un mix di ingegneria e risentimento il consenso. Proprio perché tra Di Maio e Berlusconi, M5S e Forza Italia, vi sono parentele, somiglianze e analogie, il piccolo leader della Piattaforma Rousseau ha sempre escluso ogni possibilità di accordo con Berlusconi per prenderne il posto e relegarlo nell’archivio della storia come l’ultima espressione della politica e della comunicazione del Novecento.
Le somiglianze, però, finiscono qui. Per quanto siano evidenti e significative, sono pur sempre minori rispetto a ciò che fa la differenza tra i due “movimenti”. Forza Italia è pur sempre un partito più vicino all’idea tradizionale di partito politico di quanto non lo sia il M5S. Ha avuto sedi e dirigenti che invece nel movimento grillino non ci sono. Ha ereditato in larga parte l’elettorato della Dc e lo ha condotto, contando anche su personalità culturali di tutto rispetto, verso una “rivoluzione liberale” che non c’è stata. Il populismo berlusconiano è stato corretto almeno culturalmente da un riferimento ideale al liberalismo. Quello che si chiama il “ventennio berlusconiano” è in realtà un periodo ormai storico in cui la forza politica che ha meno governato è proprio il partito berlusconiano mentre il centrosinistra, nelle sue varie fasi, e in momenti decisivi è stato alla guida del Paese. Nel ventennio berlusconiano, inoltre, quando si è cercato di realizzare la prima riforma liberale di cui l’Italia avrebbe avuto bisogno – la riforma del lavoro, giunta poi troppo tardi con il Jobs act – ci sono stati due assassini politici: Massimo D’Antona, governo D’Alema, fu ucciso a Roma in via Salaria, e Marco Biagi, governo Berlusconi, fu ucciso a Bologna sotto casa, entrambi per mano delle Brigate rosse. Dunque, è davvero difficile non solo pensare ma anche immaginare il cosiddetto “ventennio berlusconiano” come un’epoca dominata dalla figura di Berlusconi, mentre è vero che quel ventennio è stato un tempo bruciato e sprecato in cui le forze politiche che si sono alternate al governo non sono riuscite, per motivi opposti, a riformare uno Stato e un Paese che, in verità, non avevano alcuna voglia di essere riformati.
La Terza Repubblica, della quale il M5S si intesta in maniera un po’ goffa in verità la paternità, è un Paese stanco, rancoroso, smemorato in cui i grillini possono dire come pappagalli di voler fare un governo del cambiamento per dare ai cittadini quelle riforme che attendono da trent’anni. Si tratta dell’uso di una sloganistica che risponde solo ad un indottrinamento che a sua volta risponde a logiche di propaganda e comunicazione ben testate dalla Casaleggio e Associati nella sua capacità di costruire il consenso sociale e trasformare la stessa politica in marketing. Se prima, infatti, la politica usava la comunicazione, il marketing e le scienze sociali ora, invece, sono la comunicazione, il marketing e le scienze informatiche che usano la politica. Di fatto la politica è scomparsa, come consunta, o meglio trasformata in un prodotto della comunicazione informatica. Se volete ne avete anche una prova: l’incapacità di fare un governo – che molto poco ha a che fare con i risultati elettorali – e l’irrilevanza delle forze ideali del Parlamento che proprio ora dovrebbero attivarsi ma nessuno immagina di pensare e lavorare in Parlamento per una legge elettorale seria.
Il M5S non è un partito e Di Maio ha ragione a ripetere continuamente che si tratta di un movimento. Un movimento da ribellione delle masse indotto per via informatica in cui la mezza cultura dell’uomo-massa ha preso definitivamente il sopravvento. In realtà, il M5S è un pre-partito, ma non è il pre-partito della cultura liberale che deve esser un po’ comune a tutti per garantire la vita civile e democratica in cui ogni partito difenderà poi i suoi interessi, piuttosto è una sorta di Ppi ossia di pre-partito illiberale in cui sotto la maschera di una discussione democratica si gioca alla costruzione del consenso per via informatica soffiando sul rancore e sull’odio sociale e così la democrazia muore di democrazia perché non si sa educare alla libertà. Nessuno sa come venirne fuori, forse non se ne verrà fuori, senz’altro non per via politica (o almeno io non riesco a immaginarlo).