di Guido Bianchini
Ho scritto e riscritto questo pezzo più volte negli ultimi giorni, avrei voluto farlo nei ritagli di tempo, ma i tentativi mancati mi hanno assorbito ancora più tempo. Scrivere di Benevento è da sempre una medicina catartica, un piacevole diversivo soprattutto quando la mente è pungolata da altri pensieri. Eppure lo confesso, mai come quest’anno, scrivere di pallone non è mai stato così difficile. È come se il doppio salto di categoria ci avesse messo troppo zucchero nel sangue e la crisi glicemica fosse sempre dietro l’angolo. La scrittura è un esercizio di lucidità che forse poco si adatta all’entusiasmo dilagante. Su questa spinta l’opinionismo ha attecchito come gramigna, la retorica del nuovo e del bello, tipica di chi per la prima volta esce dai propri limitati e limitanti confini ha sopraffatto ogni tentativo di tenere la barra a dritta e di non tenersi tutto come manna dal cielo. Il calcio, lo ha scritto anche Marc Augè, è l’unica grande narrazione fideistica dei nostri tempi, eppure negli ultimi anni gli eccessi di spinte messianiche del re eolico, finalmente realizzatisi dopo tanti fallimenti misconosciuti, ci hanno resi dogmatici, fanatici invincibili e l’entusiasmo cieco dei neofiti, molti dei quali soltanto desiderosi di accodarsi ad un carrozzone finalmente trionfante, ha impantanato anche chi cerca di vivere i fenomeni di provincia col giusto peso, con quel minimo di disincanto utile a non scambiare topolini per dinosauri. Solo che la vita in provincia non è un film di Sorrentino e più che essere “forti” come Gep Gambardella si rischia di passare per pazzi visionari incontentabili che schifano il re per partito preso, anche quando con la sua mano benevola elargisce pane mai mangiato prima, poco importa come. E se il re perché è tale se ne frega di fedeli e miscredenti, la difficoltà resta per chi vede nella novità presunta il trionfo a ribasso del già visto, di un cafone arricchito convinto di poter fare il ciuccio presuntuoso anche in A, cioè uno zoo dove ci sono altri ciucci, forse anche più presuntuosi per carità, ma che giocano secondo regole da casinò, non da partita davanti al bar di paese. Qualsiasi cosa si sarebbe potuta dire o scrivere quest’anno , sarebbe ricaduta sempre nel soliti ritornelli, nelle fughe retoriche pur di non ammettere la solita discesa fallimentare con le dinamiche di sempre. Se prima era il vertice a eliminare certe parole, seguito da una stampa sempre più ridotta a rotocalco, ora è la base ad inginocchiarsi indefessa convinta che un anno di umiliazioni continue e di inadeguatezza si tutti i fronti possa essere comunque motivo di gloria e vanto di cui essere grati. E nel delirio collettivo è facile passare per deliranti, per cui, come dimostra l’aborto spontaneo di “A denti stretti”, è stato meglio smettere di tentare di argomentare un punto di vista, di narrare una storia altra, perché lavare la capa a un ciuccio può essere divertente, ma se i ciucci sono troppi, non basta il tempo , l’acqua e il sapone.
Che mi resta della serie A, me lo ha spiegato inconsapevolmente stamattina mia madre. Presa dalla sua mania d’ordine ha scovato una foto da stadio del novembre del ’99. Non si riesce a capire quale partita fosse, ci siamo solo io e papà in primo piano appoggiati alla balaustra della tribuna, semplicemente felici di andare al campo (stadio è un concetto troppo nobile per quei tempi). Ecco la risposta è tutta li: per me il Benevento è un legame d’amore con la mia famiglia, con gli illusi che lo amano da sempre senza motivo e con la mia terra che spesso odio dalle viscere, ma che ogni tanto, grazie ad un pallone e due colori, sa ricordarmi quanto , nel bene e nel male, le appartengo e mi appartenga, a prescindere dai provincialismi diffusi, non solo nel pallone, e dalla prosopopea del progettista triennale e dei suoi devoti. In fondo è quanto basta per trasformare il ghigno a denti stretti di quest’anno in un sorriso disteso da bambino, felice di essere al Santa Colomba.