Il vino non è mai stato solo una bevanda, dal mito di Icario alle celebrazioni religiose contemporanee, da Alceo ai nostri giorni, nell’esperienza umana, nella mitologia, nella religione e nella letteratura il vino è stato ed è simbolo, espediente retorico, rappresentazione del divino e del demoniaco, sollievo, farmaco.
Per questo bere un vino e raccontarlo, scriverne con giustizia, non è mera faccenda gustativa e tecnica. Il dono di Dioniso richiede esplorazione, studio, conoscenza di storia, persone e terre.
E’ indubbio che alcune di queste conquistino e ammalino più di altre, perché dense di vicende e bellezze affatto retoriche, poco palesi, recondite, di cui si arriva a sospettare l’esistenza per remoti e subliminali indizi che catturano gli animi curiosi e liberi (Libero, guarda un po’, fu uno dei nomi di Bacco).
La Liguria è una di queste terre. Seduce, conquista, attrae, che la si provi nel bicchiere o che la si attraversi fugacemente in treno o in automobile.
Dopo la Valle d’Aosta è la regione italiana con la minore superficie vitata, superficie, che per altro, è andata via via riducendosi nel corso del tempo a causa delle condizioni geomorfologiche e di quelle climatiche. La mezzaluna ligure è stretta tra il mare e le catene montuose di Alpi Marittime e Appennino. Le perturbazioni che arrivano da occidente scaricano qui, a levante in particolare, parte della propria forza sotto forma di precipitazioni. La vite, tranne che in alcune ristrette aree più pianeggianti o omogenee, è coltivata su terrazzamenti, frequentemente violentati dalle piogge. Un contesto estremo che ha la sua espressione esasperata nelle Cinque Terre, il tratto di costa di levante, in provincia di La Spezia, tra Punta Mesco e Punta Montenero, in cui si susseguono cinque grumi abitati: Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza, Monterosso.
Diversamente dalla nostra Costiera Amalfitana, non esiste una via carrabile di mezzacosta che unisca le “terre” abitate. C’è invece una suggestiva via ferrata su cui scorre un treno che parte da La Spezia e ferma in ciascuno dei borghi. In auto si viaggia senza che il mare sia visibile, se non occasionalmente, tra le foreste, come scriveva Diodoro Siculo nel I secolo avanti Cristo, e letteralmente ci si butta alla cieca, fiduciosi nelle indicazioni, lungo precipizi di stretto asfalto tra rocce scure, perennemente umide, e in questo periodo striate dal giallo di ginestre vivaci e folte. Aprire il finestrino dell’auto è un po’ come aprire la dispensa delle erbe aromatiche, si è investiti da una invisibile nube balsamica, aromatica, selvatica mediterranea. Si prosegue sin dove si può, poi si continua a piedi verso l’abitato trattenuto dal mare e abbarbicato sulla roccia. Lo spazio vivibile è talmente limitato che i pescatori, accomodano le imbarcazioni in piazzole naturali lungo il declivio della montagna.
Lo spettacolo dei terrazzamenti va osservato dall’alto prima di lanciarsi verso il mare e poi, dal mare stesso, per apprezzarne la maestosità frutto di un lavoro arduo, della caparbia volontà se non di dominare la natura ostile, di costringerla all’armonia con l’uomo e la pratica agricola. La bellezza di questo paesaggio modellato anche dall’uomo sfonda il cuore.
È una terra difficile da attraversare e da vivere; del pari è difficile entrare in confidenza degli uomini schivi che la abitano. Non è qui, a ben vedere, il luogo di una vita indifferente allo spazio che la contiene. Il rapporto uomo-spazio, però, è doppio, biunivoco: le esistenze sono subordinate alle condizioni estreme del posto, ma al contempo ne assorbono l’intima bellezza e l’asprezza temperata dalla dolcezza del mare. Basta, allora, qualche parola discreta e un bicchiere di vino bianco perché si intreccino relazioni subito segnate da manifestazioni di franchezza e solidità. Il vino, già, il pretesto che spinge qui, non esce da qui. Se ne produce pochissimo e resta in loco. Trovarlo e raccontarlo è una missione irrinunciabile.