di Guido Bianchini
Per quanto la risonanza mediatica degli scrittori in Italia e il proliferare delle scuole di scrittura di ogni ordine e grado, quasi che quest’arte si possa insegnare prima ancora di averla imparata, facciano credere che digitare sequenze di lettere sia un modo per accrescere l’ego e la riconoscibilità, nella pratica vale l’esatto contrario. Scrivere è esperienza di solitudine, di salutare allontanamento dal caos del mondo per ritirarsi nella propria tenda, tanto per usare una felice metafora di Jabès. Occorre tempo, per cui si dovrebbe tendere a diffidare dagli scrittori seriali e voglia di fare i conti con il vuoto della pagina bianca, pronta a riempirsi di segni che non si sa bene dove condurranno in primis chi li traccia. Ciò vale ancor di più per la scrittura filosofica o saggistica in genere. La regola aurea dell’ impersonalità costringe e abitua all’oblio di sé. Una riduzione costante, un mettersi tra parentesi, che inizia già in fase di lettura quando ci si immerge in testi altrui, con la speranza di non restare fatalmente invischiati nelle seducenti tele di ragno tipiche dei grandi autori. Un mettersi in ascolto che fa sentire piccoli, di una piccolezza da preservare per non ridurre la propria voce ad eco d’altri. Un procedere a piccoli passi , sempre incerti, perché in bilico tra il pericolo di ricadere nel già detto e il non farsi prendere dal’eccessiva smania di originalità, per l’ennesimo sussulto di egocentrismo. Forse la scrittura ha in sé qualcosa di patologico, trasforma il normale susseguirsi di suoni in segni e in questo passaggio, apparentemente naturale, tutto cambia. La volatilità della parola si fa sempre più grave, di una pesantezza incancellabile proprio perché sempre esposta alla possibilità della cancellazione e del fraintendimento. È come se ogni preposizione anche quando è espressa in forma affermativa mantenga l’inquietudine dell’interrogazione. Ad ogni periodo appare in controluce e in filigrana quel :”avrò capito bene?” che accompagna da sempre la lettura attenta e cauta e che si acuisce al pensiero di aprire giocoforza il rapporto interpretante- interpretato ad un terzo, al lettore, uno che dovrà a sua volta tentare di capire, possibilmente senza farsi irretire dalla tua stessa scrittura, limata, curata, frutto del confronto con altri, ma pur sempre sfuggente e pericolosa per natura, tendente a nascondere insidie ignorate dall’autore stesso. Un gioco a tre in cui la stessa potenzialità infinita del terzo, ignoto per definizione, consegna il testo stesso ad un inevitabile e incontrollabile deriva. La scrittura è molto simile alla generazione perché sembra promettere possibilità di controllo e soddisfazioni future, quando invece è assoluta esperienza di fragilità e alterità. Beninteso non quella del figlio da proteggere, facendosi prendere dal mammismo da cui i padri non sono certo immuni, ma la fragilità costitutiva dell’essere genitore- autore.
Tutte le paturnie del rapporto genitori figli si ripropongono in maniera impressionante nel contesto di una scrittura ossessionata dalla responsabilità della stessa. Mettere un punto che si presume essere l’ultimo nell’inquieta speranza che ciò non attenui del tutto l’interrogazione nella forma chiusa del libro, apre all’esperienza della fiducia in altro, dell’abbandono della propria creatura in mani altrui. Un’esperienza che il prevalere delle strutture economiche sostanzia in un prezzo da pagare per averlo, ma che di fatto non appaga il creatore. Sovraccarica l’autore di un’ulteriore responsabilità impensata all’inizio, quella di chi è oggetto di un investimento, seppur non esorbitante, che gratifica e lascia pur sempre nel dubbio. È un investimento sull’autore o sull’altro? Si aderisce ad un prodotto confezionato ad arte o al percorso che in esso si tenta di tracciare? Sarà chiuso in un cassetto, magari come gesto d’amicizia e stima personale o parlerà ancora? E se parlerà riuscirà a farlo con le parole date o avrebbe avuto bisogno d’altro, dell’aiuto del padre come sentenziava Platone? Domande sempre aperte, forse destinate a restare senza risposta, ma che trasformano la fiducia ingenua in “fede” più matura e consapevole, che ha poco di religioso, ma la stessa coloritura paolina, perché spera senza vedere, in occhi altri che senza neanche dirlo si cimentino dell’esperienza di attraversamento errante della parola, tipica della lettura e trovino nel testo parole altre, realmente altre perché lontane da quelle del suo autore, e gliele donino perché possa camminare da solo e provare a sentirsi adulto, in attesa di liberarsi persino dell’unicità dell’esordio da primogenito, cui potrà provvedere, a suo tempo, solo un altro, un “fratello”, ancora senza forma, né sostanza.