di Gennaro Malgieri
La gloria è effimera. E proprio per questo indescrivibile. I sanniti l’hanno sperimentato nella loro storia e quando più raramente è stata assaporata tanto più gradevole è risultata, fino a renderne il gusto indelebile. Diecimila “pazzi d’amore” al “Vigorito” , e non saprei quanti altri lungo la Penisola, alla prima vittoria, nell’ultima giornata d’andata del campionato di serie A, nell’ultima partita del comunque trionfale e “storico” 2017, hanno avvertito, oltre al gusto indescrivibile come l’ambrosia degli dèi, anche un fremito indecifrabile scatenatosi al triplice fischio dell’arbitro. L’incubo è finito così. E le Forche Caudine sotto le quali gli stessi sanniti per quattro lunghi mesi sono stati costretti a passare, hanno ceduto come d’incanto per un colpo di Coda, il solo colpo riuscito disattendendo i pronostici della vigilia al suo arrivo tra i giallorossi, nel cuore di un inverno crudele illuminatosi come la luce solstiziale prometteva dieci giorni fa.
La nottata è passata? Forse che sì, forse che no. Magari più no che sì. Ma a che serve, dopotutto, pensarci? Tanto più dolce è il sogno quanto più irrealizzabile si palesa. E le streghe e gli stregoni nulla possono contro il Destino segnato ancor più se accettato.
Ci pare di capire che, al netto dei risultati, questa è la forza del Benevento: perdere con onore, guarda caso all’ultimo minuto spesse volte, ma mai disperando di risalire la china. Quattro punti sono pochi, quasi niente; la penultima ne ha nove in più, le terzultime undici: si può fantasticare sugli scontri diretti e giocarsi fino alla fine la permanenza nella massima serie conquistata con i colpi di maglio – da sanniti autentici – che ricordiamo assestati nei momenti giusti alle compagini più titolate ed accreditate. E la fantasia, come si sa, talvolta supera la realtà.
Certo, il Chievo non è la Juventus. Ma quando Ciciretti piegò gli zebrati all’Allianz Stadium non credemmo, almeno per un po’, che i miracoli nel calcio sono possibili ben oltre ogni pronostico sfavorevole? Il Leicester non vinse il campionato inglese l’hanno scorso lasciando il mondo sbalordito? La Chapecoense, promossa nella serie A brasiliana, non stava per conquistare, soltanto un anno dopo, la finale della Copa Sudamericana prima che un terribile incidente aereo l’annientasse? E che dire delle squadre islandesi, compresa la nazionale, che dal niente stanno ammaliando l’Europa con il loro gioco povero, essenziale, affascinante, né occidentale né latino-americano?
Il Benevento ha il diritto ed il dovere di credere nel successo fino all’incontrovertibile verdetto matematico. Ma deve crederci con l’animo degli scettici, di coloro che scendono in campo la domenica (o il sabato) sapendo che non hanno niente da perdere, lanciando portieri all’attacco e attaccanti trincerati in difesa, applicando davvero quel calcio totale disorientante e magmatico, fluido e scanzonato, irridente e libero da schemi rigidi buoni per le lavagne, non per il terreno di gioco.
De Zerbi mi sembra che incarni, sia pure inconsapevolmente, questa filosofia. E sta facendo giocare bene la sua squadra che, per quanto s’è visto nelle ultime settimane, meriterebbe più dei quattro punti su cui sta costruendo – ed uso responsabilmente questo verbo – la sua gloria. La gloria degli ultimi, non degli sfigati. Quella che arride a chi non si arrende e non si piega davanti agli sgraziati epigoni di Romeo e Giulietta convinti che nel Sannio avrebbero avuto la fortuna che altrove non hanno trovato. Da queste parti abbiamo l’impressione che la Dea abbia fatto cadere le bende che celavano i suoi occhi e, impietosita e frastornata da tenacia ed amore, li abbia posati sull’ultima squadra, una legione lacera ma dignitosa.