di Giancristiano Desiderio
C’è voluto più di mezzo secolo per avere una biografia di Raffaele De Caro. Un tempo così lungo che ci si chiede perché. Certo, è vero che vi sono state qua e là delle pubblicazioni e dei ricordi come, ad esempio, il libretto di Gennaro Papa edito da Ricolo nel 1986 con le testimonianze di Giovanni Malagodi, del Presidente Leone e dell’avvocato Alfredo De Marsico; o il volumetto curato da Giuseppe De Lucia, direttore di Messaggio d’Oggi, nel 1993 pubblicato dalle edizioni del suo giornale; o, ancora, le non poche pagine che alla figura e all’azione politica di Raffaele De Caro sono dedicate nella Storia di Benevento e dintorni di Gianni Vergineo. Tuttavia, nessuna di queste pubblicazioni è una monografia mentre il lavoro di Andrea Jelardi ora uscito per le Edizioni Realtà Sannita, Raffaele De Caro. Deputato e Ministro Liberale, è una biografia completa del politico sannita più importante e rappresentativo del Novecento.
La figura di Raffaele De Caro che emerge dalle pagine del libro di Jelardi è quella di un combattente che, ricevuta in famiglia un’educazione risorgimentale, mise alla prova se stesso e il suo patriottismo prima nella guerra di Libia e poi nelle trincee della Grande guerra per poi attraversare la storia del secolo dei totalitarismi con la fede nella libertà che lo sostenne nelle lotte politiche e sociali in momenti cruciali della vita dell’Italia, prima da antifascista e poi da ministro “quando l’Italia era tagliata in due” fino a succedere a Benedetto Croce alla presidenza del Partito liberale italiano. Proprio il filosofo nel suoi Taccuini di lavoro ha avuto per Raffaele De Caro parole di apprezzamento: “Ho chiesto che in cambio assegnasse al De Caro – scrive in data 9 dicembre 1944 -, autorevolissimo capo nell’Italia meridionale del partito liberale-democratico (che si è fuso col nostro) un alto commissariato; e abbiamo domandato ai presenti se alcuno faceva obiezioni alla persona, e nessuna obiezione si è fatta e nessuna poteva farsi, perché il De Caro è stato fermissimo antifascista nei ventidue anni passati e compagno fino all’ultimo di Giovanni Amendola”.
I momenti caratterizzanti della vita e dell’opera politica di De Caro li possiamo riassumere in tre episodi: quando segue Giovanni Amendola nella scelta dell’Aventino, quando caduto il fascismo lavora da subito per la pacificazione, quando muore a Torino nel 1961 arrivando persino a rubare la scena a Cavour.
La scelta di De Caro di seguire Amendola nell’opposizione ferma e convinta al governo Mussolini diventato dittatura – “occorre il lavoro di molte vite (a fondo perduto) per gettare le fondamenta dell’Italia di domani. Noi doniamo quello di cui siamo capaci senza calcolo e senza rimpianti” – è emblematica della fede liberale del bersagliere sannita che se avesse voluto avrebbe potuto rappresentare il fascismo e diventare per davvero il “duce del Sannio” come lo definì nel 1944 Mario Alicata inaugurando da subito la strategia comunista che trasformava l’antifascismo in arma ideologica con cui accusare l’avversario politico di fascismo e così dannarlo per estrometterlo dal consorzio civile. Cosa, invece, che proprio De Caro da subito evitò di fare. Quando il comandante inglese oppure l’italo-americano Mario Ravarino o ancora il colonnello Forster – perché di questo colloquio storico ci sono varie versioni – gli chiese la lista dei fascisti da arrestare, De Caro rispose: “Non ce ne sono. Ne rispondo io”. Vale la pena notare che la posizione di De Caro in quei tempi drammatici è esattamente contraria alla posizione odierna di tanti che vedono fascisti e fascismo ovunque, sulle spiagge e in città, così accade che quando c’erano i fascisti De Caro disse “non ce ne sono” per avviare il paese sulla via della pace, mentre oggi che non c’è il fascismo ci sono coloro che vedono fascisti ovunque per avere nel paese un bel clima da guerra civile mentale permanente avvalorando la battuta di Flaiano secondo il quale i fascisti si dividono in due categorie, i fascisti e gli antifascisti, e confermando quanto sapeva Croce sotto lo stesso regime mussoliniano ossia che non basta essere antifascisti per essere democratici perché il cuore del problema è maturare una cultura anti-totalitaria.
Nel 1961, inizio giugno, Raffaele De Caro andò a Torino per partecipare alle celebrazioni del centenario della morte di Camillo Benso conte di Cavour. Il presidente del Partito liberale non poteva, non doveva, non voleva mancare e avvertiva quelle giornate come il senso stesso della sua vita. Tre anni prima sentendo avvicinarsi la fine aveva scritto il suo testamento spirituale: “Morrò nella fede democratica nella quale sono nato, orgoglioso di aver servito fedelmente il mio Paese in campo nazionale, provinciale e nella mia città. Lascio ai miei elettori, specialmente ai giovani, la bandiera del Partito Liberale Italiano nel quale ho militato con inalterato fede per tutta la mia vita; dichiaro in coscienza di non serbare odio o rancore a chicchessia e a coloro che mi hanno fatto del male confermo il mio perdono. Anelante alla pace, auguro alla mia Patria e alla mia Benevento ogni progresso nella democrazia e nella libertà”.
Arrivò a Torino con il figlio Guido e presero alloggio al Grand Hotel Sitea. Visitò la mostra “Italia ‘61” allestita per il centenario dell’Unità d’Italia e il 4 giugno avrebbe dovuto tenere il discorso in memoria di Cavour. La sera prima, dopo le telefonate alla moglie e alla sorella, si sentì male. Il figlio Guido lo sentì lamentarsi, corse, lo soccorse ma non ci fu niente da fare. Il cuore del bersagliere si era fermato nella notte che dava la mano al giorno delle celebrazioni in onore di Cavour che divennero celebrazioni in onore di Raffaele De Caro. “E fu perciò che lo credetti fosse non solo opportuno ma indispensabile costituire un grande partito liberale – recita la frase di Cavour sul palco del cinema Lux – chiamando a farne parte tutte le persone che, quantunque avessero potuto differire sopra questioni secondarie, consentivano però nei grandi principi di progresso e di libertà”. Parole vere ieri, oggi, domani.
Ottimo lavoro