di Guido Bianchini
Questa “rubrica” voleva/doveva essere un contenitore di emozioni a loro modo uniche per chi segue le sorti dei giallorossi. Da subito si è lasciato intendere che, a dispetto di due annate trionfali culminate in due promozioni consecutive, non sarebbero state rose e fiori, ma neanche il mio proverbiale real-nichilismo sui fatti pallonari, avrebbe potuto immaginare che gli unici fiori accostabili a questo Benevento fossero dei crisantemi da dipartita. In fondo il ritornello stucchevole su quando inizi davvero il nostro campionato, mostra che esso non è mai cominciato davvero. Tutte le componenti giallorosse, dalla società, allo staff, ad allenatore e rosa, sono rimaste di serie B. Una cosa auspicabile e gratificante se si viene da anni infernali di serie C, ma a dir poco frustante se ci si trova, a questo punto nostro malgrado, in una serie superiore. Quello zero in classica è l’indicatore antipatico, ma realistico della nostra inadeguatezza calcistica alla massima serie. Potremmo stare ore a dissertare cavillosamente su episodi singoli, lasciando spazio al gioco autolesionista e in fin dei conti poco consolatorio dei se e dei ma, la sostanza non cambierebbe più di tanto. Se questi sono i fatti nudi e crudi di quest’annata deludente, merita un po’ d’attenzione la reazione emotiva a tutto ciò, non fosse altro per mitigare, nei limiti del possibile, l’eccessiva mestizia dilagante.
In un momento storico di poche speranze, forse è stato un errore collettivo sopraccaricare il calcio, che resta e dovrebbe restare sempre un diversivo e non una ragione di vita, di un fardello spropositato di aspettative. È un fatto che si ripete soprattutto nelle piccole realtà di provincia, il credere che un pallone possa essere la panacea di tutti i mali . Non è così e purtroppo non lo sarà mai. Quest’onda emotiva benefica, se è stata per due anni propulsore di entusiasmo, ha solo migliorato l’umore dei pallonari (ed è sempre un bene), ma non può certo “redimere” o riscattare un territorio. È un illusione ridicola, anche se accattivante, persino per chi fa politica, il cui lavoro dovrebbe avere un peso decisivo sulle sorti di una comunità, figuriamoci se ci può aspettare ciò dal calcio.
Non vorrei ridurre tutto al mio ambito di studi, ma forse è il caso di iniziare a demitizzare il pallone, di iniziare a togliergli quell’aura religiosa che neanche la religione in senso stretto riesce più a preservare. È da questa perversione atavica del calcio che hanno luogo tutte le frustrazioni del tifoso, i fanatismi da stadio, di cui è piena la cronaca di questi giorni, ma anche soprattutto il delirio d’onnipotenza di chi gestisce i club. Forse il dimensionamento in campo del Benevento, benché doloroso, potrebbe portare ad un ridimensionamento del fenomeno calcio almeno a queste latitudini. L’identità di un territorio non può dipendere da uno sport e da chi lo ama, così come il suo valore intrinseco. È una mitologia puerile e dalla logica frustante essa stessa. Per dirla con semplicità: non valevamo oro perché arrivati in serie A e non valiamo zero perché siamo a zero in campionato. Il ridimensionamento che auspico, si spera non troppo utopico, non è un misconoscere il valore del calcio in nome di cose più importanti, ma il suggerimento, dato a me stesso in primis, a riportarlo entro i suoi naturali confini. Il bello delle partite è che nel bene e nel male, non sono infinite durano 90 minuti. L’errore storico che ci portiamo dietro da sempre è estenderle all’inverosimile. È un gioco che fa gioco solo a chi nel calcio vede uno strumento di riconoscibilità sociale o di lucro (siano essi presidenti, politici, giornalisti, procuratori, direttori sportivi o tifosi di professione), i quali non sono da biasimare più di tanto, perché in fondo fanno il loro mestiere, e amano il calcio relativamente cavalcando onde sociali ed interessi vari. Chi ama spassionatamente il calcio credo dovrebbe considerarlo per quello che è: uno sport, un divertimento, magari costante e foriero di ogni tipo di umana emozione, positiva o negativa che sia, ma comunque una parentesi, per quanto grande, che non aggiunge e non toglie nulla al valore intrinseco di un gruppo sociale e di un individuo, al pari di ogni passione più o meno condivisa.