di Gennaro Malgieri
Da bambino domandavo a mio padre, che quasi regolarmente mi portava con lui al San Paolo la domenica, quando avremmo visto un incontro tra il Napoli ed il Benevento. Non mi rispondeva: guidando accennava ad un sorriso e se la cavava con un’alzata di spalle più che eloquente. La mia curiosità non finiva lì. Cercavo nei giornali locali, il lunedì, quel che c’era sulla prima squadra sannita e francamente non era molto. Dovevo accontentarmi dei “tabellini” e di qualche scarna cronaca redatta da corrispondenti locali che si limitavano a note poco appassionate, scritte certamente per dovere d’ufficio.
All’epoca, dopo travagli non indifferenti, la formazione portava il nome “San Vito Calcio Benevento”, ma per tutti era il Benevento punto e basta. I suoi colori erano rossoneri, giocava sul campo di Santa Maria degli Angeli intitolato poi nel 1960 a Gennaro Meomartini. Il ‘60, l’anno della promozione in serie C dopo aver veleggiato a lungo tra la D e serie minori. L’allenatore era Zidarich ed io mi appassionai alle vicende di quegli undici ragazzi sconosciuti anche perché tra di loro giocava un talentuoso difensore, mio parente piuttosto stretto in quanto cugino di primo grado di mia madre, Angelo Forgione, un “mito” a Solopaca. Non lo vedo da tanto tempo, ma credo che i suoi ricordi giovanili si siano riaccesi dopo la conquista della serie A. Continuavo a chiedermi quando avrei visto una partita “ufficiale” tra il Napoli ed il Benevento e le vicende societarie successive alla fine del San Vito Calcio ed alla riappropriazione del nome del capoluogo sannita mi lasciavano la flebile speranza che prima o poi l’evento agognato di sarebbe realizzato.
Sono diventato quasi vecchio nel frattempo. E domenica il Benevento debutta nella massima serie incontrando al Marassi di Genova la Sampdoria. Nell’attesa immagino tutti i giocatori, gli allenatori, i presidenti che dal 1929 si sono succeduti sfilare in un’ideale parata per raccogliere l’applauso di quanti, in questo e nell’altro mondo, in ottantotto anni hanno atteso, credendoci al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, il compimento dell’impresa.
A dire la verità poco m’intrigano le dispute (inevitabili) sul mercato che ci tedieranno fino all’ultimo giorno, a campionato iniziato (un’anomalia grottesca) e le polemiche sui biglietti “omaggio” da destinare all’amministrazione (una bufala: se anche fosse, dov’è lo scandalo? Un Comune proprietario dello stadio non dovrebbe avere il diritto di poter ospitare chi vuole? Ormai la marea montante della demagogia non si ferma più davanti a nulla…). Vorrei che tifosi, appassionati, osservatori più o meno curiosi si stringessero attorno alla squadra facendole sentire il calore di un mondo ritenuto a prescindere e per sempre “minore”, ma che minore non è proprio per niente.
La vedrò – la vedremo – quella sfida tra Napoli e Benevento per aggiudicarsi punti in Serie A. E so già che, almeno per me, non sarà una giornata allegra. Posso, io sannita augurarmi che il Napoli perda dopo aver tifato per gli azzurri tutta la vita? E allo stesso tempo che vinca contro la squadra che simboleggia la mia storia, quella della mia famiglia, che mi riporta a quel sogno di bambino quando non costava nulla tifare per il Benevento che contava niente a fronte del grande calcio che andava in scena sul quel gioiello del San Paolo distrutto dagli “abbellimenti” apportati in occasione dei Mondiali del ‘90?
Mi frega poco in questi giorni se in Sicilia Alfano starà con il centrodestra o con il centrosinistra (è più interessante sapere che campionato faranno Palermo, Catania e Akragas) o se le chiacchiere da ombrellone scuoteranno (si fa per dire) una politica che più morta non la si potrebbe immaginare. Scriveva l’immenso Nicolàs Goméz Dàvila: “Imbecille è chi percepisce solo l’attualità”. E siccome amo Nietzsche almeno quanto ho amato, per motivi diversi si capisce, Garrincha e Maradona, non posso che essere “inattuale”.
Dunque, al diavolo la politica finta, l’economia farlocca, la finanza mostruosa, il pallido pensiero agostano, sudato e maleodorante, che ci ripete ossessivamente ciò che sappiamo in festival filosofico-letterari-poetici-artistici, pagati dai contribuenti che se ne fottono a maggior gloria di assessori ignoranti che s’ingozzano di salsicce bruciate e di parole mandate a memoria messe in fila da mediocri ghost writers con il cappello in mano e le speranze sotto i piedi. E occupiamoci di cose serie.
Domenica a Genova s’apre la partita. Uno spettacolo grandioso. Non per tutti, evidentemente. Ma volete mettere per chi ha bazzicato le contrade sannite abboffandosi di polvere domenicale ai bordi di campi malmessi e tornandosene a casa con le solite illusioni nel sacco, vedere Benevento, il Benevento, avanzare spavaldo in case sontuose tra argenterie lucidate con indefessa costanza? Uno spettacolo inebriante. Manifestazione di qualcosa di più della grande bellezza. La resurrezione di anime che si erano credute morte e non lo erano. Per una volta, la grande schifezza lasciamola fuori.