di Giancristiano Desiderio
Nella vita, se ce la vogliamo cavare, dobbiamo fare qualche cosa perché è soltanto facendo che ritroviamo noi stessi e superiamo le angosce e gli spaesamenti. Forse, tra tutte le regole che ci impongono e che noi ci diamo, solo questa è l’unica vera legge di natura. San Benedetto ne era così persuaso che la codificò nella massima ora et labora che poi, non casualmente, è diventata la Regola. Benedetto Croce fece sua, per necessità e verità, la regola cristiana e benedettina: per lui il labora è sempre stato il comandamento per eccellenza senza il quale la vita umana, che ha bisogno di essere lavorata, è dispersa e sperperata. Possiamo dire ancora oggi a noi stessi ora et labora? Forse, no. Non sapremmo a chi rivolgere la preghiera ma la preghiera dell’uomo moderno è il pensiero, così la regola benedettina può essere riformulata, come ho suggerito di fare, con cogita et labora. E’ questa la regola della vita in cui il deliro della padronanza assoluta lascia il campo al governo della vita in cui, ognuno di noi, tramite cogita et labora, avrà l’accortezza di non farsi eccessivamente governare.
Proprio Croce in una “postilla” poi ripresa nel terzo volume delle Pagine sparse si sofferma su questo concetto raccontando un aneddoto. Una sera incontrò a Palermo, in teatro, il generale Gandolfi che era stato governatore dell’Eritrea. Ricordando i suoi trascorsi, il generale disse che nel mezzo delle battaglie non sentiva altro bisogno che di muoversi, di fare anch’egli qualcosa “e, facendo, ritrovai me stesso e superai lo smarrimento”. Per il filosofo quelle parole, che per il generale erano semplici e normali, furono preziose e le ebbe sempre come riferimento: “Nei maggiori travagli, nei più sfiduciati abbattimenti che ho sofferto e soffro, una voce mi risuona di dentro: Fare qualche cosa”. Così fece, dopotutto, proprio nel momento più buio della sua esistenza, quando con il terremoto di Casamicciola perse i genitori e la sorellina Maria e lui stesso rimase sepolto una notte e un giorno fino al collo, fin quando due soldati lo trassero dalle macerie alla vita nuova e disperata. A cosa si aggrappò il giovane Benedetto che accarezzò più volte l’idea del suicidio? A ciò che aveva imparato a fare: al lavoro degli studi. Perché è proprio attraverso il lavoro, qualunque esso sia, che noi riportiamo la vita a noi e superiamo con quell’atto e con quella passione le difficoltà del momento che, instancabili, non tarderanno a riaffacciarsi su noi e noi, con altrettanta instancabilità, torneremo al lavoro usato con il quale ci siamo educati e supereremo ancora o proveremo ancora a superare lo sconforto e l’avversione.
Chi di noi non ha momenti di delusione e avvilimento, di sfiducia e di depressione che lo spingono a lasciarsi andare e a buttarsi su un divano e a vedere di lì il mondo tutto nero, come un gatto un lutto una cantina, ed a pensare che nulla vale perché tutto rovina? Davvero, a volte sembra che tutto rotoli e vada per il peggio ma dal fondo della cantina una luce, fioca eppur luminosa, si riaccende e ci spinge a “fare qualche cosa” e attraverso questo fare ecco che la luce si rafforza e la vita si rianima e con il lavoro i momenti di angoscia e auto-annientamento sono scalzati o, ancor meglio, lavorati e la vita riprende a camminare. Come avere dubbi: è davvero questa l’unica vera legge universale della nostra esistenza nel cui petto batte un cuore di tenebra in cui si annida e asside la Cura – le preoccupazioni, come diceva Goethe – che va governata sapendo che è una nave che per essere se stessa ha bisogno del mare che ora è calmo e ora in tempesta.
Le preoccupazioni sono parte della vita, anzi, sono la vita stessa dal momento che una vita senza pericolo non si riesce neanche a immaginare e per darle senso verità e gusto perfino Dio si dovette inventare il peccato del diavolo tentatore. A volte le preoccupazioni possono persino irretire la mente e l’azione. Accade, forse, ai pavidi e ai temperamenti paurosi che temono anche la loro ombra e hanno paura di tutto ciò che può accadere. Ma aver paura di tutto ciò che può accadere equivale a tutto e a niente giacché le preoccupazioni vere non sono mai astratte e possibili ma concrete e probabili e ci spingono al pensiero e al disciplinamento della volontà. La mente dei più giovani, che per loro natura e forza vitale sono protesi verso la vita e le sue energie e piacevolezze, a volte può esser preda dei fantasmi e da una preoccupazione generale che può degenerare in una sorta di male di vivere e un inganno che conduce a forme morbose di vita, follia e dispersione. Anche qui l’unica vera legge valida è ancora “fare qualche cosa” affinché tramite il lavoro possa rinascere la gioia di vivere e ricondursi nel mondo pensando e facendo e scacciando da sé quella che è, forse – e senza forse – la forma più cretina di stupidità che consiste nell’intenzione di poter vivere veramente solo se si toglie il male dal mondo. Ma come si fa? Non ci si avvede che il proposito non solo è vano ma è anche insensato perché è proprio quel che noi chiamiamo male a stimolare il bene e a trasformare la nostra stessa forza vitale, cruda e verde, che chiede piacere e soddisfazione in forza di bene. Da sempre, in ogni rigo, in ogni piega di ogni rigo, il mio amico mi ammonisce che togliere il diavolo dal mondo equivale a togliere il miglior amico di Dio, il suo stesso aiuto, la sua stessa mano divina che crea ogni giorno il mondo con le sue sofferenze e con le sue gioie che sono sofferenze e gioie vive ossia continuamente in lotta con se stesse per essere vive e vere. Perché in fondo e nel fondo della canzoncina idiota di colui che desidera sradicare una volta e per sempre il male dal mondo, cioè dal bene, canta molto banalmente un ideale edonistico che vuole un mondo tutto beato e tutto piacevole fatto a immagine e somiglianza dei suoi bisogni per evitare e scacciare anche solo l’idea che la vita umana è fare qualche cosa.