di Giancristiano Desiderio
Il suo nome era Epicarmo ma alcuni lo chiamavano Epi e i più Carmo. Non era alto ma sembrava ancora più basso quando si calava dentro un pesante cappotto grigio e spigato che gli arrivava giù alle caviglie e aveva due spalle che sarebbero andate a pennello a Carnera. Di mestiere faceva l’ubriacone, tranne il giorno del mercato settimanale quando, uscito alle prime luci dell’alba dalla caverna dove abitava, aiutava le signore e le serve consegnando loro le buste della spesa a casa. Non ci ricavava soldi – che altrimenti avrebbe riversato nella cantina di zi’ Teresa e nei bar del paese – ma pasta, olio, zucchero, caffè, calzini, mutande, scarpe, maglie e ciò che gli serviva per campare senza pretese e senza offese. Tutti gli volevano bene, tranne il sindaco che lo prese a odiare per via di un affronto che per Epicarmo fu solo un franco confronto.
S’incontrarono sulle scale d’ingresso del municipio che un tempo era un monastero di frati minori che del lavoro e della povertà fecero la loro religione. “Don Antonio, permettete una parola” disse Epicarmo al sindaco che usciva dal portone con il solito codazzo della sua corte dei miracoli. Il sindaco, al contrario di Epicarmo, era alto e magro ma una magrezza più figlia della cattiva coscienza che della scarsa forchetta. Era stato fascista ma caduto il regime di Muss aveva giocato d’anticipo e prima d’essere perseguitato si diede anima e corpo alla causa di Baffone fino a comandare partito e paese. Epicarmo non lo mandava giù perché anche se ubriacone ricordava bene il suo passato in orbace e la sua arte di saltare sul carro del vincitore. “Epicarmo, sempre qui stai – gli disse infastidito e con la neve in tasca – cosa vuoi?”. Epicarmo rimase fermo sulle scale mentre la corte sfilava e lasciatala passare disse: “Signor sindaco, io non voglio niente; vorrei solo sapere a che punto è la pratica per il piccolo sussidio perché ogni volta il ragioniere dice che è tutto fatto e manca solo il vostro benestare”.
Don Antonio Pecorino, che in realtà si chiamava Antonio Cicone ma tutti lo chiamavano Pecorino perché commerciava e con la posizione che aveva speculava in pecore e in formaggi che conservava nelle grandi cantine dell’ex monastero, si fermò, risalì due gradini e guardando il povero Carmo dall’alto in basso gli fece: “Epica’, tu lo sai che io qua vinco sempre e non ho bisogno di niente, soprattutto del tuo voto ma ti avevo chiesto una dimostrazione di buona volontà, un po’ si simpatia per la mia persona e, invece, tu non solo non sei andato a votare ma continui a raccontare una storia passata che tutti ormai hanno dimenticato e nessuno vuole ricordare. E ora mi vieni a chiedere pure il sussidio? Tié – e gli allungò due monete – bevi alla mia salute”. Tra le risa del codazzo si voltò e se ne andò sicuro del fatto suo, quando ancora una volta si sentì chiamare: “Don Antonio, don Antonio Pecorino”.
La corte dei miracoli non rideva più. Si sentiva solo la voce di Epicarmo: “Don Antonio, ma voi non mi avete chiesto il voto, mi avete chiesto l’anima e io l’anima, anche se sono ubriacone, la do solo al Signore e il Signore sta in cielo mentre qui vedo solo padreterni che tutti insieme valgono meno di un ubriacone”.
Il fatto in poco tempo fece il giro del paese. Si sa come vanno certe cose: a raccontare l’accaduto furono proprio i miracolati che alle spalle chiamavano il sindaco Pecorino e alla luce del sole lo omaggiavano. Per il sindaco, certo, il fatto fu uno scuorno. Mai nessuno si era permesso di parlargli a quel modo: il voto, l’anima, il Signore, i padreterni. E da chi veniva poi l’affronto? Da un ubriacone senz’arte né parte. Meritava una lezione, ma quale? Non aveva un lavoro, né una casa, né una famiglia, non aveva nulla, era conosciuto da tutti e da tutti benvoluto. Ma che, questo povero cristo era davvero inattaccabile come un vero signore? Un padreterno, lui sì. Ma tu guarda a volte dove si va a cacciare l’animo libero.
Fu allora che la corte dei miracoli si riunì e partorì non il topolino ma i topi, proprio i topi.
Epicarmo abitava in fondo al paese antico. In un vicolo buio, sotto una volta, dentro una roccia sulla quale si alzava un palazzo signorile senza più aristocrazia. Ma con un via vai di madonne nere col culo grosso e madonne bianche con i seni all’aria e un nugolo di gesùbambini spuntati, sputati da qualche anno a questa parte come figli di un dio nascosto e come un tempo non lontano i figli della guerra, solo che questa volta i neri non erano soldati, non avevano né cioccolata né sigarette ed erano sbarcati non per salvare ma per salvarsi. La corte dei miracoli pensò bene di collocare in quel vicolo oscuro dove non c’era luce né aria un punto di raccolta di monnezza mai raccolta. Così in poco tempo il cumulo di immondizia divenne più alto dell’ingresso della caverna di Epicarmo e i topi che salivano e scendevano dai cumuli di schifezze e lerciume erano sempre più grossi e grassi e sempre più numerosi e aggressivi. Epicarmo, quando non era ubriaco, provava a pulire il vicolo ma il lavoro era vano perché era più la monnezza che arrivava che quella che toglieva. “Quanta merda c’è a questo mondo” diceva “e per capirci qualcosa bisogna avere il senso della merda”.
Ciò che più impensieriva Epicarmo erano i topi. In poco tempo si erano moltiplicati e ormai rodevano così tanto che sembrava che da un momento all’altro sarebbe crollato tutto il palazzo con le sue madonne nere e bianche e i gesùbambini che aprivano la porta agli uomini di ogni risma. Quel palazzo in paese lo chiamavano ormai il Palazzo della Verità perché là dove ci sono le puttane – diceva il popolo con la sua voce che se non è di Dio poco ci manca – c’è la verità.
I topi erano impressionanti: paffuti, chiatti, rapidi, con la coda come una frusta, la bocca come una conca, le zampe come artigli, erano ormai i veri padroni del vicolo. La monnezza aumentava a vista d’occhio e impediva ad Epicarmo di entrare o di uscire dalla caverna. I topi brulicavano sulla montagna di immondizia e quella montagna di immondizia e i topi – topi e immondizia – sembravano un mondo nel mondo o un mondo a parte o parte di un mondo o il mondo intero. I topi giungevano da ogni luogo, risalivano dalle fogne, uscivano dalle cantine, arrivavano dalla selva dalla quale emergeva il paese, camminavano sulle mura del Palazzo della Verità e la loro ombra ingigantita oscurava quel poco di luce che entrava nel vicolo proprio per far vivere l’ombra. Ormai, erano più i topi che gli umani.
Quei grossi topi, enormi pantegane, avrebbero minacciato in poco tempo il paese come una peste. Forse, erano proprio la raffigurazione animalesca della peste. Epicarmo ricordò la favola del pifferaio magico che giunto ad Hamelin nella Bassa Sassonia con il suono del suo piffero incantò le centinaia e migliaia di topi che infestavano il paese e li condusse nel fiume dove annegarono. In quel caso favoloso fu proprio il sindaco – il borgomastro – a pregare il pifferaio di liberare il paese dalla peste dei topi con il suono magico del piffero. Ma era solo una favola, non poteva fare altrettanto. Il sindaco non era suo amico ma suo nemico.
Epicarmo, però, capì che se non avesse fatto nulla, i topi giganti non solo avrebbero mangiato lui, ma anche tutto il paese come già stavano facendo nel silenzio generale. Fu così che, proprio pensando ad Antonio Pecorino e alle cantine del municipio che usava per conservare le migliaia di forme di formaggio che taglieggiava ai pecorai e vendeva a caro prezzo sul mercato estero, che gli venne una strana idea. Se fosse riuscito a collegare i topi a quelle cantine ricche di formaggio di ogni specie avrebbe anche liberato il paese dalla peste.
Una notte riunì tutte le madonne e i gesùbambini e diede loro dei grossi sacchi da riempire con il miglior lerciume del vicolo. Ad ogni sacco fece un buco dal quale la monnezza usciva ordinata e misurata disegnando per vicoli e strade del paese una sorta di polvere da sparo. I gesùbambini avevano in spalla dei sacchi più piccoli, le madonne dei sacchi più grandi ma tutti lavoravano alla perfezione sotto la guida sapiente di Epicarmo che ora era in testa al gruppo, ora in coda. Quella lunga fila di monnezza doveva arrivare fino alle cantine dell’ex monastero e doveva funzionare secondo Epicarmo come la musica del pifferaio magico. I topi, infatti, ben presto cominciarono a seguire il senso della merda che Epicarmo aveva saputo con grande sapienza rivoltare contro i suoi nemici. Centinaia, migliaia di topi uscivano dal vicolo e dal Palazzo della Verità e seguivano la traccia disegnata dalle madonne e dai gesùbambini. Quei grossi topi neri e grigi sembravano un torrente in piena: correvano per le vie e le piazze del paese fin dove le conduceva la musica di Epicarmo. Giunti alle finestre interrate dalle cantine del municipio, i topi furono irresistibilmente attratti dall’odore delle migliaia di forme di formaggio che lì giacevano. I topi entravano, correvano, si calavano nelle cantine come acqua in tempesta, nulla resisteva al loro assalto e in poco tempo si ritrovarono nel loro paradiso. Rodevano e divoravano. Tutto. Migliaia di topi in una notte e un giorno mangiarono tutto il patrimonio di don Antonio Pecorino che non poteva credere ai suoi occhi quando la sua corte dei miracoli, incredula a sua volta, scoprì l’orrendo e venerando spettacolo dei topi che tutto avevano divorato passando dalle cantine al piano terra del municipio. In un attimo l’intero municipio era tutto un fracasso infernale di gnam-gnam e i topi, come una punizione divina, erano ormai i padroni del palazzo comunale mentre il Palazzo della Verità, senza ombra e senza peccato, riprese a vivere con le madonne, i gesùbambini ed Epicarmo che nella caverna beveva alla salute di tutto il paese.