Non siamo abituati a pensare al cibo come nutrimento necessario. Il progresso in questa parte del mondo ha emancipato l’umanità a tal punto dal bisogno e dalla scarsità che si è addirittura superata la fase dell’edonismo, del piacere del cibo. Nel terzo millennio è di moda autoinfliggersi costumi alimentari esotici, estranei alla nostra cultura e alla nostra storia. La medicina e l’igiene ci hanno regalato una longevità che evidentemente non basta, con intrugli di soia e grani antichi si tenta di spostare ulteriormente innanzi la soglia della vita, il momento della morte.
In abitazioni e stanze d’ospedale, tuttavia, taluni, tanti,inevitabilmente combattono segrete battaglie contro mortali mali. Veleni iniettati a profusione nelle vene di costoro, sventurati, estinguono il bene e il male, cellule sane e cellule insane, la fame di morte della malattia e la fame di cibo del paziente.
Antoine ha trent’anni meno di me ma è già un vecchio amico, tanto intensa è stata ed è la nostra amistà. L’ho trovato l’altro giorno col volto pasticciato di colori (blu, verde, giallo, rosso) sorridente e afflitto. Le terapie dure, sub letali, tentano di distruggere un tumore vorace e gli hanno consumato una ventina di chili dei sessanta e passa della sua forma da sportivo. Gli dicono che deve nutrire quel che di buono ancora c’ha in corpo per combattere il male, mi dice che le medicine gli hanno spento la fame, il sorriso no, la fame. “Com’è aver fame? Non lo ricordo più” chiede mentre provo a scatenare la memoria involontaria evocando a mo’ di madeleine proustiana la frosolotta che mangiammo un giorno insieme a Roma in un ristorante di lusso. E’ inutile, nel ricordo è orribile anche quella inimitabile frosolotta di cui parlava ogni volta che arrivavamo al dessert.
Non mangia nulla, ha la forza ancora di scherzare, pensare e alzare le lenzuola. Si è colorato la faccia perché gli dicono di continuo “come sei bianco” e il Sustacal gli fa talmente schifo che non riesce a buttarlo giù manco ad occhi chiusi e naso tappato. Ha ingannato medici e familiari, ma all’amico confessa: ha nascosto le lattine sotto le lenzuola del suo letto ad aria e me le mostra, alzando il telo bianco. Una teoria di lattine ordinate in fila lungo la sponda metallica del letto e nascoste dal gonfiore del lenzuolo prodotto dall’aria del letto motorizzato.
Ridiamo insieme. “Il cronista gastronomico, curioso per natura, non può sottrarsi alla degustazione del Sustacal, pastone per malati ex buongustai”. Così afferro una lattina miracolosa, la stappo come si può fare con una birra e ne ingollo il contenuto.
Ostento una falsa indifferenza mentre le papille gustative e l’intero apparato gastrico scatenano una rivoluzione furiosa. “Non è così terribile”. Sapido con un retrogusto di fragola marcia e pesca sciroppata del protozoico segue la prima sensazione di surrogato di cioccolato scaduto da settantadue mesi e gorgonzola affinato in vello di montone. Una meravigliosa terrificante bevanda necessaria, tuttavia, ad alimentare le cellule sane di un organismo devastato da quelle infami insane e dalle medicine salvifiche (almeno si spera).
Il Sustacal è un concentrato di nutrienti, un piatto unico inevitabile per chi non riesce a mangiar altro. Il Sustacal è buono. Occorre solo ricodificare il gusto, rieducare le papille, imponendo loro di accettare ciò che è necessario prima di ciò che è saporito e che non si riesce neanche più ad apprezzare nel ricordo. “Antoine, un paio di queste me le porto e le regalo a Alessandra, quella che si fa il tofu e mette curcuma e zenzero in ogni dove. Antoine, il Sustacal è meglio dell’hamburger di soia. Mangia e non rompere le scatole che altrimenti ti faccio una flebo di seitan”.
L’ho lasciato che beveva il buon Sustacal dal sapore orrendo, promettendogli di scrivere un pezzo che gli leggerò al momento della guarigione.