di Giancristiano Desiderio
Una volta Emilio Colombo raccontò un gustoso aneddoto che aveva come protagonisti un filosofo, una giornalista e uno iettatore. Benedetto Croce stava con Matilde Serao, suonarono, entrò il cameriere: “Professo’, ci sta ‘chillo”. “Chillo chi?”. “L’innominabile!”. “Hiiiih!” fece Croce toccandosi. Al che la Serao, donna di mondo, allungando la mano disse: “Professo’, permettete che anch’io…”. Si sa che i napoletani sono particolarmente sensibili all’argomento. Perché sono ignoranti? Al contrario, perché sanno per sano scetticismo greco che un mondo tutto conoscenza e trasparenza non solo è impossibile ma se lo fosse sarebbe criminale. Ecco perché l’aforisma del compianto Umberto Eco, “la superstizione porta sfortuna”, è poco più di uno sberleffo mentre la frase di Eduardo de Filippo è ironia e autoironia pura: “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”.
La jella porta fortuna. Lo insegna Colobraro: il comune più iellato d’Italia. Ma è anche un tema se non addirittura il tema centrale della storia del pensiero occidentale. Per sconfessare il luogo comune, riderci su e farci anche un po’ di soldi, gli sfigati del comune innominabile della Basilicata si sono inventati il festival “Sogno di una notte…a quel paese” ed è stato da subito un gran successo, una gran botta di culo. La sfortuna è stata trasformata in fortuna. Perché le due cose sono tra loro legate. Il grande Machiavelli nell’immortale capitolo XXV del Principe ci dice che la nostra vita è per metà nelle mani della fortuna e per metà nelle mani della nostra virtù. Se così non fosse danzeremmo tutti nel caso assoluto oppure saremmo schiavi inconsapevoli della necessità. Altro che superstizione e irrazionalità. La fortuna e la sfortuna sono più che ragionevoli e ci rendono liberi. Pensate quanto sarebbe assurda e maniacale e pericolosa la nostra vita se fosse per davvero solo e soltanto nelle nostre mani. Meglio, molto meglio cinquanta e cinquanta.
Giovanni Leone, uno che era un galantuomo ma che sul più bello non ebbe tanta fortuna, prima di essere presidente della repubblica fu presidente di Montecitorio. Convocando una seduta per un venerdì 17 si premurò di aggiungere sottovoce: “Naturalmente, gli onorevoli napoletani sono dispensati”. Per la serie “non è vero ma ci credo”. Tuttavia, a nulla gli servirono gli scongiuri quando sull’onda del pamphlet di Camilla Cederna, Giovanni Leone: la carriera di un Presidente, fu costretto dal suo stesso partito, la Dc, alle dimissioni. Ma quando morì, nel 2001, tutti ne parlarono bene e un ex comunista che ne chiese le dimissioni, Giorgio Napolitano, divenuto a sua volta capo dello Stato ne fece un pubblico elogio riconoscendone la correttezza politica. Questa è una fortuna tipicamente italiana: la fortuna postuma. Tra le fortune è la più sfortunata e, soprattutto, ipocrita.
Chi è Rosario Chiarchiaro? Un menagramo così menagramo che, grazie a Luigi Pirandello, capì che l’unico modo per far tacere le malelingue e ricavare per sé e le sue figliole qualcosa di buono dalla leggenda che fosse uno iettatore era quella di chiedere al giudice che lo doveva giudicare in tribunale una certificata patente di iettatore per far pagare una bella tassa anti-jella ai superstiziosi. Per sua sfortuna, però, il giudice non era per nulla superstizioso e, anzi, era intenzionato a farla finita con i luoghi comuni. Così mentre Chiarchiaro pretendeva la sua patente di menagramo, ecco che un colpo di vento fa cadere la gabbia del cardellino – unico amato ricordo della mamma defunta del magistrato – e il povero uccellino canterino smette di cantare per sempre. Non ci fu nient’altro da fare che dare la patente a Rosario Chiarchiaro per fargli esercitare legittimamente la sua professione di iettatore.