di Giancristiano Desiderio
I Riti settennali di Guardia Sanframondi sono stati sempre popolari ma guardati con sospetto dagli studiosi e dalle gerarchie ecclesiastiche. Troppo sangue, troppo sacrificio e, insomma, fanatismo. Quegli uomini incappucciati che si battono il petto fino a farlo sanguinare, come il costato trafitto del Cristo, di certo non sono rassicuranti. Tuttavia, negli ultimi tempi i Riti penitenziali in onore dell’Assunta sono stati rivalutati sia dai laici sia dai religiosi. In quella ritualità fatta di misteri biblici e nella stessa cadenza settennale mi sembra si scorga un mito di redenzione del mondo in cui gli uomini chiedono di essere perdonati per poter ritornare ad attraversare peccata mundi. In quale altro modo, infatti, l’umanità che non è né beata come l’animale né spirituale come l’angelo può vivere se non passando attraverso il peccato e la redenzione? Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. E’ come se ogni sette anni il mondo – l’antica comunità di Guardia – si pulisse per ritornare a vivere. Gli anni che passano tra un rito e l’altro sono la storia umana.
L’ultimo Rito risale all’agosto del 2010. Passati sette anni il tempo si compie e il Rito ritornerà il 21 agosto 2017, tra un mese. Il 22 luglio a Guardia Sanframondi, a conferma dell’interesse di ricercatori e storici, sarà presentato il documentario “Sette Anni di Attesa, la festa di penitenza di Guardia Sanframondi” di Valerio Vestoso, con la consulenza di Amerigo Ciervo che è il maggior conoscitore della cultura e delle tradizioni popolari della terra sannita, e prodotto dal Centro Studi Sociali Bachelet e dalla parrocchia di Guardia. Ho visto il documentario in anteprima e ho apprezzato il lavoro professionale ed estetico della regia di Vestoso, come l’esperienza di Amerigo Ciervo nel raccogliere testimonianze di protagonisti e studiosi. Il documentario, sia con l’erudizione e i filmati sia con la conoscenza e l’analisi, consente di avvicinarsi ai Riti con più avvedutezza per apprezzarne il significato non sempre chiaro.
L’origine dei Riti è incerta e sconfina nel buio. Credo, però, che l’elemento pagano sia visibile: la ritualità ha come suo scopo la purificazione nel tentativo di ingraziarsi la non controllabile forza divina. In questo modo i Riti esprimono un fenomeno che ritroviamo anche in altre comunità religiose del Sannio in cui il cristianesimo pur conquistando l’anima umana si è dovuto per forza di cose scontrare con i culti precristiani fino ad accoglierli, modificarli e conviverci. L’esperienza decisiva dei Riti è la penitenza: i flagellanti e, soprattutto, i battenti. Gli uomini incappucciati – che non sono solo se stessi ma rappresentano un mondo intero, una comunità che cerca un buon rapporto con il divino -, attraverso la loro stessa carne viva e sanguinante si riconoscono peccatori e colpevoli, si sottomettono alla divinità, chiedono perdono. Per cosa? Questa mi sembra la domanda centrale. Per liberarsi dei peccati e ritornare a vivere. In questo senso i Riti di Guardia esprimono – come ben si afferma anche nel documentario – una continua promessa di conversione e, quindi, hanno per forza di cosa sia una natura pagana sia un’anima cristiana, altrimenti verrebbero meno la necessità della liberazione dal peccato e l’atto di conversione o redenzione. Il paganesimo e il cristianesimo sono due modi di essere e vivere della nostra umanissima e sofferente condizione in cui il peccato originale è la libertà. L’uomo è uomo in quanto è cacciato dal Paradiso: questa è la sua felix culpa, la sua nobiltà in cui diventa un creatore di storia proprio perché non può permanere nella beata natura e deve in continuo superarsi.
I Riti, insomma, mi pare di capire che esprimano, anche in forma eccessiva – ma l’eccesso a volte è della vita stessa che, appunto, eccede – la tragicità religiosa dell’umanità e della sua storia in cui gli uomini patiscono e si sforzano di redimersi. In questo senso, la parte in ombra dei Riti non è tanto il mistero divino quanto i Sette anni di attesa o di esilio. E’ vero che i Riti vanno in scena – e la parte teatrale è senz’altro importante – ogni sette anni dopo il 15 di agosto ma è altrettanto vero che durano sette anni perché quel tempo è il tempo in cui il divino consente agli uomini – i mortali – di vivere da uomini. L’atto finale del Rito è la possibilità di esistere. La nostra laicità – non dovremmo dimenticarlo ed è affascinante notarlo ogni volta – è la trasformazione secolare dei nostri miti religiosi. Nella ritualità ciò che si cerca e ciò che è realmente in gioco è proprio il peccato o la colpa di esistere in quanto tale che chiede di essere redenta per essere vissuta. Insomma, l’uomo non aspira a farsi puro, perché non sarebbe più umano, ma chiede che sia riconosciuta la sua impurità affinché possa vivere, chiede che il male possa essere sopportabile, che il peccato non sia considerato così peccaminoso perché in fondo, nel fondo della nostra anima, altro non è che la nostra possibilità di essere vivi. L’uomo per vivere – qualunque uomo, anche il più santo, anche il più sensibile, anche il più puro – non può fare altro che vivere tramite peccata mundi. Per essere libero e puro e vero non posso negare la vita ma soltanto formarla, viverla e divorarla mentre mi uccide.