di Guido Bianchini
Nessuno saprà mai cosa passava per la testa dei grandi condottieri o delle grandi masse rivoluzionarie quando facevano letteralmente la storia, perché quest’ultima si scrive sempre dopo, a cose fatte. Un’esperienza analoga deve aver vissuto ogni tifoso del Benevento andando incontro alla storia quel fatidico 30 aprile 2016, destinato a divenire lo spartiacque della storia calcistica del Sannio. Mai siamo stati così forti e convinti nei nostri mezzi, mai siamo arrivati così vicini alla realizzazione di un sogno collettivo tanto da poterlo quasi toccare con mano prima della matematica certezza.
Eppure quel giorno che molti avranno scolpito nella mente iniziò con mestizia. Tutta la settimana che ci ha portato alla partita col Lecce è stata all’insegna dello smorzare entusiasmi ormai inevitabili. È come se le troppe scottature dei tifosi sanniti ne abbiano mutato la pelle, ci abbiano insegnato, a furia di batoste, che l’urlo di gioia può tramutarsi in rabbia e scemare nel silenzio dei rassegnati se lo si emette troppo presto, per cui meglio custodirlo in gola fino all’ultimo. In città il clima era surreale: per le strade nessun addobbo, nessun colore. La memoria era ancor più fresca della vernice che per anni siamo stati costretti a togliere dopo l’ennesima sconfitta. Era evidente che i tifosi, soprattutto i più datati, non avevano dormito, avevano vissuto il loro sabato del villaggio nella speranza che le lunghe attese non fossero disattese e si realizzassero in una domenica storica. Persino i bar, luoghi di discussione calcistica per eccellenza, sembravano non essere più deputati a ciò. Nessuno pensava ad altro che alla partita del pomeriggio, all’importanza dell’evento, eppure nessuno osava esprimersi e i più spavaldi che ci provavano trovavano subito chi fosse pronto a zittirli, per scaramanzia e per non alzare ulteriormente il livello d’ansia di cui l’aria era satura da giorni.
L’unica parola adatta a descrivere questa strana “paranoia” collettiva era il forse, con il quale si introducono i dubbi, le perplessità, ma anche le grandi speranze future, senza riuscire a scindere i lati della stessa medaglia. Anche i piccoli gesti domenicali, quelli che ogni tifoso fa abitualmente per prepararsi alla sua sana dose di pallone settimanale, avevano un sapore diverso, un duplice taglio: erano il preludio a qualcosa di nuovo e insperato o il segno di un’allucinazione collettiva pronta a trasformarsi in frustrazione? Le file di auto giunte da ogni parte della città per poi formare un unico serpentone diretto allo stadio davano l’idea di un esodo, di un pellegrinaggio verso una terra promessa sotto forma di una lettera che, pur essendo la stessa iniziale di squadra e città, si aveva un timore, quasi religioso, a pronunciare.
Il calcio soprattutto nelle piccole realtà di provincia è liturgia, vive di riti codificati, perché rappresenta la voglia di ribalta dei piccoli centri, il desiderio di sentirsi grandi almeno attraverso il Dio pallone, anche se, come spesso capita, su altri aspetti, forse più essenziali, si resta comunque figli di un dio minore. Una volontà di riscatto territoriale e di ascesa calcistica simboleggiata al meglio da quei gradoni di casa, pochi e leggeri per i più giovani, faticosi, infiniti e pesanti per i più datati (non solo per acciacchi o cali di forma, ma per le fatiche ben più provanti di assaltare quella categoria impronunciabile). Il Vigorito, già pronto per il grande salto da anni, nonostante l’ampia capienza, sembrava un formicaio brulicante e il pienone restituiva bene l’effetto collante che da queste parti solo il calcio riesce ad ottenere.
C’era anche qualche lamentela sugli spalti, ma le annose diatribe tra fedelissimi e occasionali lasciavano il posto all’orgoglio di far parte di un unico blocco umano pronto a sospingere una Strega mai volata così in alto.
Sul campo l’ennesimo capolavoro tattico di mister Auteri e dei suoi ragazzi. Una partita per la storia, ma senza storia; un ultimo atto eroico, quasi erotico perché dopo anni di patemi e beffe in extremis in B ci siamo andati godendo per lo spettacolo in campo e sugli spalti; è come se 87 anni di attesa dovessero essere sublimati in 90 minuti in crescendo, con la consapevolezza che era il nostro anno e nessuno, neanche la malasorte, era più forte di noi.
Il triplice fischio finale ha liberato il grido strozzato per l’intera giornata, ci ha fatto versare lacrime sublimi. Quelle di ci ha sempre creduto, ma non sapeva quando avrebbe visto questo giorno. Quelle di chi non ci credeva più, eppure si è lasciato smentire dal dio pallone che d’improvviso ha smesso di fare dispetti al popolo giallorosso e lo ha ripagato di tante, troppe amarezze. Quelle dei vecchi che temevano di non riuscire a vedere la terra promessa che si incrociano con quelle dei più piccoli che da poco hanno scoperto la magia dello Stregone e ne resteranno fatalmente innamorati.
Nel mezzo un mare di abbracci, mai così spontanei e così sentiti. Una fratellanza a forti tinte giallorosse che abbatte senza tante parole le divisioni del provincialismo e ci ha fatto sentire felice di abitare uno spazio comune.
Forse ai più potrà sembrare iperbolico, ma la B è stata e sarà una pietra miliare della nostra coscienza collettiva perché è stata la speranza finalmente realizzata di più generazioni, ciò che ci ha permesso di tirare fuori il meglio di noi stessi. Un senso di appartenenza, la gioia di essere sanniti e di esserlo insieme. Uno spirito da conservare, forse da ricordare di tanto in tanto per applicarlo ad ambiti più decisivi della nostra vita comunitaria, ma sarebbe un discorso lungo e fortemente utopico.
Per ora è meglio vivere e rivivere la nostra semplice utopia calcistica: quel giorno afoso d’aprile in cui dei cuori hanno battuto all’unisono per due colori, hanno inseguito un sogno fino a vivere la paradossale incredulità di chi è giunto finalmente alla meta.
Dedico questo pezzo a mio nonno Guido che per primo mi portò al Santa Colomba e a tutti coloro che non hanno fatto in tempo a vedere la B con la speranza che le nostre grida di gioia siano arrivate fin dalle loro parti.