di Giancristiano Desiderio
Gli Anni Novanta? Mai esistiti. Gli Anni Novanta sono stati l’appendice inconcludente degli Anni Ottanta. E’ nata la “televisione del nulla” disse Gianni Boncopagni, or ora scomparso, quando battezzò il nuovo decennio nel 1991 con Non è la Rai. Appunto. Gli Anni Novanta si qualificano per negazione. Sono stati la sterile mimesi degli Ottanta, un vano prolungamento, una protesi inabile. I Novanta sono un “esaurimento” degli Ottanta. Non sono neanche finiti perché in realtà sono sfiniti sperdendosi nel Nuovo Millennio in cui nulla è vero perché tutto è ancora Post. La prova?
Guardate l’ultimo lavoro di un regista giovane e rigoroso e scrupoloso, mai palloso e ampolloso o petaloso, senz’altro avventuroso – Valerio Vestoso – che per conoscere noi e la contemporaneità non ha ideato un personaggio finto ma una maschera: Enzo Savastano. Il cantore della visione neomelodica del cosmo – Neomelodic way of life – nel brano appena uscito Anni 90 ci dà una versione vitalista del decennio in cui tutto e nulla è possibile: Tra novanta giorni ti saluto maturità, oggi iniziano gli Anni 90 e la mia libertà, una birra e una Panda sono questi i ricordi degli Anni 90 morti come una bella signora che a quel tempo s’incontrava in un garage con un diciottenne alle prese con la santa beata immaturità e mille lire e una Fanta, era quello il tesoro degli Anni 90. Una favola che finisce con un funerale. A cavallo tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso accadde qualcosa che ancora ci condiziona: venne giù il mondo e tutto divenne favola. E come Ermione o Patrizia, quella favola ancora ci illude. Enzo Savastano, spostandosi con il pullman della Marozzi da Benevento a Roma e a Milano per i suoi concerti, interpreta la parodia del patetico sentimento della favola dei migliori anni della nostra vita. La fenomenologia (semiseria) di Enzo Savastano ha tre caratteri principali: assenza, neomelodia, ironia.
Assenza. Enzo Savastano non esiste ma c’è. E’ presente/assente. Come Godot. Meglio, come Zazà. Dove sta Zazà? Tutti la cercano, nessuno la trova. Il segreto del successo di Enzo Savastano è proprio in questa sua introvabilità. Tutta la sua manifestazione è nella maschera. Scompare e quando riappare è con gli occhiali da sole a mascherina. L’attore – Antonio de Luca che insieme con Vestoso concepisce e mette in scena questa sorta di avanspettacolo tecnologico – è risolto nella mascherina il cui compito è interpretare la realtà attraverso il Grottesco. Come il volto di Potito è “solo” Pulcinella, così Enzo Savastano è senza volto e sotto gli occhiali non c’è Antonio de Luca, esattamente come sotto la maschera di Totò non c’è Antonio de Curtis. Enzo Savastano è “un regalo all’umanità”, come scrisse Isernia Oggi.
Neomelodia. L’Italia è il paese del melodramma, come recita il celebre titolo del libro di Bruno Barilli, e nel tempo dei post-italiani, per dirla con il caro Edmondo Berselli, la monodia dei neomelodici è la versione post-moderna del melodramma. Il patema e il paté d’animo sono la nota barocca e plebea dei neomelodici ed Enzo Savastano ne è la massima espressione al contempo raffinata e ruspante e l’una perché l’altra giacché su tutti regna l’intellettuale signora Parodia. I neomelodici non sono soltanto cantanti ma un modo di stare al mondo e cantarlo, vederlo, interpretarlo e così Enzo Savastano è la parodica chiave di accesso ad un mondo che pur avendo paesi e quartieri e patrie galere e luoghi, topografie, topi e tope non ha una sua precisa geografia, piuttosto, ha una geopolitica con delitti e relitti in cui i luoghi, anche se distanti, diventano luoghi comuni. Per Savastano la neomelodia è una religione e ha la sua storia sacra che inizia con i Sumeri che già avevano l’abitudine di dedicare canzoni alla suocera, mentre Nerone diede fuoco a Roma perché non riuscì a trovare in tutto l’Impero un cantante neomelodico per la festa di diciotto anni del suo secondo figlio. Nelle sue Pillole di storia. Alla scoperta del neomelodico Enzo Savastano colloca la vera origine della canzone di sentimento nel Medioevo con Giovanna d’Arco che aveva una voce che faceva paura e nelle Nozioni Base individua alcuni elementi fondamentali del cantante neomelodico: occhiali, matrimonio e va-va-va o ga-ga-ga (dipende dalla scuole di pensiero, Savastano è per il va-va-va). Frasi storiche: “La musica è il tempo libero della nostra anima”; “Sogno un grande polo della neomelodia per la Campania, un’accademia in cui si entra cantanti e si esce neomelodici”; “I sorbetti non sono più come una volta”. “La vita è neomelodica”.
Ironia. Ma l’anima di Enzo Savastano vive soprattutto nell’ironia. Da Campomarino – e va bene tesoro mo’ affittiamo il pattino, Campomarino, però non me l’hai detto che tenevi un bambino, sono già due o tre ore che fissi il bagnino, il mio cuore si scioglie come fosse un cremino – a Mannaggia ‘a Marozz – l’amore è litigarello e non passa per Caianello, devo fare il biglietto della Marozzi se no manc ‘sta vota t’ pozz’ verreee – è l’ironia che s’impone con naturalezza e dà il tono e il tonno alla pesca miracolosa. Insomma, la situazione è malinconica. All’ironia non sfugge lo stesso Savastano e così l’ironia diventa autoironia. Tutto è gioco in un gioco di specchi, occhiali a specchio e tacchi a spillo. Come nella scena, strepitosa e gomorroide, con Dario Brunori – che Savastano chiama Bruno – in cui il cantante indie si vendica con una parodia della sua parodia ma deve poi sedersi al piano e suonare e cantare come vuole ‘o sentimento neomelodico di Savastano indeciso – purtroppo, questa volta – tra va-va-va e ga-ga-ga.
E’ Enzo Savastano una creatura di Valerio Vestoso e Antonio de Luca o più passa il tempo e Valerio Vestoso e Antonio de Luca sono creature di Enzo Savastano? Non saprei, mi sembra una domanda di Gigi Marzullo. So solo che l’ironia è un tratto costante del lavoro di Valerio Vestoso, a cominciare da quel pluripremiato Tacco 12 che ogni volta che lo vedo mi fa risalire due righe ironiche di un racconto di Gogol’ che mi risuonano in mente: “Ahimè! Sui volti, della madre e della figliuola, era chiaramente scritto che esse avevano menato le gambe nei balli, da ridursi quasi di cera”.
E ora, qui giunti, bisognerebbe aprire il capitoletto dell’orgoglio sannita ma non ce la faccio, fatelo voi; meglio guardare e sentire Senza sentenza (dedicata a Silvio) o il Reggae Neomelodico perché eri bella vestita coi rasta, ti ho incontrata in un centro sociale ma lo sai che se vengo a suonare lo faccio per te, sono stato tre giorni in Giamaica a imparare la rivoluzione, aggio scritto ‘sta bella canzone e te la faccio sentì per capire che tutto il mondo diventato favola è sottoposto a critica meglio che in un’analisi di Ilvo Diamanti e a sfottò meglio che in una scena di Maurizio Crozza, così Benevento, sempre chiusa in se stessa, ha trovato inaspettatamente il modo di aprirsi ed essere parte del mondo e raccontarlo e raccontarsi. Enzo Savastano è la via di accesso di Benevento al mondo contemporaneo. Tutto sommato, ci poteva andare peggio. Ci volevano un regista nato negli Anni Ottanta e una maschera postmoderna per farlo.
Signore e signori, la situazione è malinconica. Gli Anni Novanta sono gli Anni Ottanta senza la bomba atomica (che è appena ritornata e, forse, bontà sua, ci ridà un po’ di senso della realtà). Sono la fine del comunismo, del lunghissimo dopoguerra, del post-fascismo e della Prima repubblica: tutte cose che hanno vissuto al di là dei loro limiti e qualità e così sono finite male senza finire davvero. La storia è finita, disse Fukuyama; la situazione è malinconica dice Savastano. Rimane un vuoto, un buco, ‘o sentimento di cui Enzo Savastano è il cantore e la maschera (con gli occhiali a mascherina).
Ps: sarebbe piaciuto al grandissimo Daniele Pace
Un kiss