di Antonio Medici
La comune e civile convivenza è scossa da dispute su temi sensibili. I nervi si scoprono non appena ci si addentra in discussioni sulla fede, l’identità, le ideologie, le credenze, le tradizioni, l’etica, gli orientamenti sessuali, il calcio, la zeppola. Si la zeppola, quella cosiddetta di San Giuseppe. Appena domenica scorsa la fervida devozione, peraltro pigra durante il resto dell’anno, ha indotto ad omaggiare generosamente il Santo con il cosumo di milioni, non abbiamo statistiche ma c’è da scommetere si parli di cifre a sei zeri, di pasticcini a Lui intitolati. Con strascichi che giungono sino ad oggi in ogni pasticceria, sui social (manco a dirlo), nelle case è divampata la polemica, a tratti aspra, sulla vexata quaestio della cottura della prelibata dolcezza: al forno o fritta.
Talebani della zeppola al forno, sostenuti da truppe di vegetariani, vegani, salutisti, vignaioli naturali, esseri biodinamici, con disciplina, fierezza e orgoglio tipici dei crociati votati al sacrifizio in nome di dio, sono avanzati nei territori mal difesi dalle sparpagliate, disorganizzate, acefale armate di epicurei, gaudenti, mezzi ubriachi armati di innocue fionde caricate a pallottole fritte morbide di crema e amarena. Inutile dire che la bellicosità dei “fornaioli”, chiamiamoli così, ha determinato un arretramento significativo, sin quasi alla soglia d’estinzione, dei “frittaioli”. Basti osservare le guantiere nei banchi delle pasticcerie per farsene un’idea. Le zeppole fritte, oramai, si consumano di nascosto, in segreto nel corso di riunioni carbonare di resistenti peccatori.
Eppure, come scrivemmo proprio in questa rubrica due anni fa, la zeppola è fritta. Non esiste la zeppola al forno. Al forno si cuoce il bigné.
Il racconto popolare, animato dal ricordo di un passato a base di zeppole fritte dai nonni e dai bisnonni, conviene su una tradizione di cottura in olio bollente. Una patina untuosa di politically correct, però, è aspersa sul ricordo, sicché la narrazione collettiva assume toni di rassegnato disprezzo per l’antica, depravata e rozza rusanza, oggi soppiantanta da una sagace opzione fornaiola. Insopportabili toni di primazìa, saccenza, supponenza, cui sono adusi i fornaioli, ci hanno indotto ad approfondire il tema con un piccolo studio.
Pellegrino Artusi, autore del più noto ricettario italiano, 790 ricette pubblicate per la prima volta nel 1891, dopo aver dato dosi e indicazioni per la prepazione della pasta beignet prescriveva: “mettetela a cucchiaiate in una teglia, unta col burro. Frullate un rosso d’uovo con un po’ di chiara per renderlo più sciolto, dorateli e lisciateli con un pennellino (ma questo supplemento non è necessario), poi metteteli in un forno che sia ben caldo. Quando son cotti fate loro col temperino un’incisione da una parte, o in forma di mezzo cerchi nella parte di sotto, per riempirli di crema….”. Erano i pasticcini di pasta bigné, ricetta 631, a Firenze.
Se non che nel 1837 a Napoli era già stato pubblicato il testo “Cucina teorico – pratica” del Duca di Buonvicino, Ippolito Cavalcanti. Vi si leggeva, tra l’altro: “per fare le zeppole, piatto di rubrica in Napoli … farai … la pasta bugné. Fatta questa pasta la porrai sulla tavola di marmo, o sul pancone verniciato d’oglio e rimenerai la pasta, della stessa ne farai tanti tortanetti, non molto piccoli, e li friggerai con strutto bollentissimo, potrai ancora con oglio; appena fatta una piccola crosta li rivolterai, e con un ferro puntato espressamente o con un puntuto di legno li pungicherai dovendo vuotarsi così ed allora le zeppole saranno ottime…”
Ancor prima del Cavalcanti, nel 1793, Vincenzo Corrado nel suo trattato “Il cuoco galante” scriveva: “fatta morbida questa pasta (la pasta bigné, di cui il Corrado fornisce una dettagliatissima ricetta) si friggerà in bocconi, o pure paffata per siringa, avvertendo di non far troppo riscaldare lo strutto…”.
Insomma a Napoli la pasta bigné si frigge da tre secoli per farne zeppole.
Resta aperta la questione etimologica relativa alla parola zeppola, che mai ricorre nei ricettari a proprosito della pasta bigné cotta al forno. Nel dizionario Treccani il termine zeppola viene illustrato come “legno o metallo usato come cuneo”. Orbene, rileggendo le indicazioni del Cavalcanti si noterà come egli inviti a far uso di un “puntuto di legno” per pungere la pasta bigné durante la frittura, al fine di farla vuotare e far in modo che le zeppole risultino ottime. Non sarebbe astruso, dunque, ritenere che l’arnese (zeppola) di legno impiegato per la cottura e l’ottenimento di un risultato squisito abbia dato nome alla preparazione.
E con una puntuta zeppola andrebbero puniti i “fornaioli”, predatori di libertà e bontà.