di Guido Bianchini
Scrissi questo pezzo quattro anni fa per una rubrica filosofica che poi non venne alla luce, la ripropongo oggi, con la speranza, sempre inquieta, che oltre la retorica da “festa comandata”, resti la necessità, soprattutto femminile, di far valere la loro alterità come apertura di una visione del mondo che arricchisca e non semplicemente ricalchi il maschile, secondo gli stessi auspici del testo di Derrida che funge da guida.
Platone diceva che i testi filosofici hanno bisogno di essere soccorsi, con tutto il rispetto per il padre della filosofia, credo che valga il contrario: un libro, soprattutto se buono, è capace di soccorrerti e sorprenderti inaspettatamente. È il caso di Sproni. Gli stili di Nietzsche (tradotto per Adelphi da S. Agosti), scelto come diversivo dal retrogusto nietzschiano per intorpidire la mente troppo occupata a districarsi tra paradossi e contraddizioni femminili per non rimanerne fatalmente invischiato. Ironia della sorte, quel vecchio diavolo di Derrida, nel suo intervento ad un convegno su Nietzsche del 1972, decise di usare come pungolo o sprone della sua analisi proprio il tema della donna. La cosa è paradossale non tanto per la mia condizione emotiva di approccio al testo, ma anche e soprattutto per la proverbiale misoginia affibbiata al filosofo tedesco da anni di eccessi interpretativi. Derrida parte dall’ idea della verità come figura femminile per illustrare il rapporto tensivo che Nietzsche istaura con questo concetto in tutto l’arco del suo pensiero. Una lotta segnata dalla distanza che non solo sfianca e a tratti atterrisce, ma che affascina perché fa parte dell’irrinunciabile gioco seduttivo. Essa appare dunque un’ identità non determinabile , una figura che si annuncia a distanza, in un rapporto di avvicinamento e allontanamento allo stesso tempo, quasi si trattasse di un vorticoso ballo di S. Vito. Derrida, stuzzicando i testi nietzschiani come enigmatiche donne da corteggiare, tenta di descrivere i passi di avvicinamento alla donna-verità, pur nella consapevolezza che ogni approccio deve fare con “ l’abisso della distanza”.
Già sento in lontananza le sirene spiegate di donne pronte ad accusarmi di maschilismo e probabilmente le sentiva ancor di più Derrida quando precisa che il problema non è solo nella femminile sfuggevolezza della verità, ma anche nel maschile dogmatismo che riduce la donna ad una verità monolitica , a volte solo idealizzata e incensata, ma mai accostata nel suo sottrarsi. Il tutto stride con la consapevolezza della donna avveduta (da recuperare ai tempi di Derrida, figuriamoci ora) di non essere simbolo di una presenza granitica, ma di leggera alterità, pur non perdendo la sua capacità di sovvertire i dogmatismi, proprio con la sua essenza non essenza spiazzante.
Non serve certo avere l’Abbagnano sotto braccio per capire che l’ardita tela tessuta da Derrida intreccia le questioni fondamentali dell’ontologia del suo tempo, la cui ecco è viva tutt’ora, con l’esperienza emblematica, a volte traumatica, del rapporto tra sessi che ci tocca affrontare ogni giorno. Egli ci può essere utile ad uscire dall’idea che questo venirsi incontro sia per forza segnato da un necessaria logica di appropriazione fatta di vincitori e vinti (come del resto vale per il paradigma dell’Essere messo in crisi da Nietzsche ed Heidegger, aprendo la strada anche al nostro Derrida). Ci stimola ad abbandonare la mitologia dell’uguaglianza per seguire la strada della differenza, non come ostacolo ed indice di incomunicabilità, ma come uscita dalla chiusura identitaria , verso uno spazio flebile e flessibile, di sospensione ,in cui, forse, si trova la possibilità ,sempre precaria, del darsi reciproco. Un “dar-si” che il filosofo francese concepisce come “gioco di veli fluttuanti”, assegnando allo svelamento rivelativo il duplice senso, di mettersi a nudo e di velarsi più finemente. Ciò sarebbe auspicabile in un epoca in cui il rapporto effettivo tra uomini e donne sembra essersi ridotto al “darla” o meno, diventato emblema distintivo ed ossessione addirittura politica, obliando del tutto la prospettiva , ancora possibile, di un donarsi segnato sempre dall’incertezza abissale della differenza che è vissuta esistenzialmente prima che ontologicamente. Temo di essermi perso nell’onanismo della scrittura, pericolo denunciato da Derrida sin dalla Grammatologia e che il soccorso chiesto al suo libricino verdastro, non sia stato efficace perché la paradossalità non solo è rimasta intatta ma semmai è cresciuta. Tuttavia, avrei dovuto saperlo che i filosofi degni di questo nome non risolvono le contraddizioni ma si limitano a scrutarle e a “lottarci” con e per passione, come fossero donne scaltre e sfuggenti.
Magari, per addentrarsi nel pensiero della differenza e non perdersi nelle scritture, potrebbe leggere le filosofe o altre parole di donne, ancor meglio ascoltare le loro storie, dando credito alla loro voce che non riconoscendosi nel pensiero maschile gli toglie la pretesa dell’universalità, come scriveva Carla Lonzi.