di Giancristiano Desiderio
Per essere fedele al pensiero di Benedetto Croce ho dovuto essergli infedele. Può sembrare un paradosso ma per apprendere l’opera altrui non abbiamo altra strada se non quella di farne un nostro dramma mentale in cui la conoscenza è il superamento di dubbi, oscurità e sofferenze. In tal modo l’interpretazione della filosofia di Croce è già di per sé al di là della sterile questione se essere crociani o anti-crociani, ex o post, per diventare ciò che non può non essere: pensiero vivo e vitale, storico e storiografico. Si pensa, qualunque cosa si pensi, se c’è un problema vitale che dal suo atto-fatto passa alla sua qualificazione ed è rischiarato nel giudizio. Il “passaggio” è il dramma della lotta che è l’unica legge che raccoglie in sé la vita tutta.
Il 2016 è stato un anno crociano, non solo per la ricorrenza dei centocinquant’anni dalla nascita del filosofo. Non poche sono state le pubblicazioni ed è giunto in porto il progetto triennale del Lessico crociano. Un breviario filosofico-politico per il futuro che, curato da Rosalia Peluso e voluto da Renata Viti Cavaliere, ha messo insieme più teste e più voci mostrando quanto sia varia, articolata e creativa l’enciclopedia crociana delle scienze dello spirito. Un triennio nel quale ho lavorato sull’opera di Croce con tre opere – la Vita, la Verità, lo Scandalo – nelle quali, appunto, sono stato fedele e infedele nella dichiarata intenzione di svolgere – per dirla con Luigi Scaravelli – una “critica del capire” del pensiero di Croce. In particolare, nella Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce ho tradito l’idea crociana che sia l’opera l’unica realtà storica effettivamente indagabile e conoscibile per, invece, rischiarare anche la vita affettiva del grande filosofo. L’ho fatto per due motivi: perché se – come si dice con enfasi e retorica – la vita di Gabriele d’Annunzio è un’opera d’arte, la vita di Benedetto Croce è un’opera di filosofia e va compresa non solo in quanto storia “come pensiero” ma anche in quanto storia “come azione”; in secondo luogo, perché è proprio Croce che ci mostra come il pensiero sia sempre un pensiero incarnato cioè vitale e la filosofia altro non è che la risposta che si dà alla vita che di per sé dalla Caverna nella quale sempre si trova chiede luce e ambisce a risalirvi per poi ridiscendere nel mondo. In questo senso, la vita di Croce, con i suoi affetti, i suoi drammi, i suoi terremoti, le sue angosce è il sottosuolo del suo pensiero con il quale il filosofo è sempre in contatto e in lotta come la vita morale è sempre in contatto e in lotta con i bisogni e la forza delle passioni e con quel laborioso regno delle madri che è il nostro canto notturno che ci alimenta di sogni e incubi e ci fa vivere e sopravvivere.
L’interpretazione di un’opera filosofica – e di un’opera e basta – si porta dentro inevitabilmente il rapporto tra opera e vita e la perizia dell’interprete sta proprio nella necessità di relazionare opera e vita, altrimenti non avrebbe la benché minima possibilità neanche di parlare. La vita di chi interpreta – sia detto senza infingimenti – non è meno importante dell’opera ed è essa stessa maestra di storia. Lungi dall’essere un atto arbitrario, è un esercizio rigoroso giacché l’atto conoscitivo è quel giudizio che per sua natura esprime la relazione con la vita che si manifesta ora come atto e ora come predicato, ora come azione e ora come pensiero. La filosofia di Croce è, su questa scia, il compimento della “logica della filosofia”: ma non perché con Croce si compia il percorso della filosofia ma più semplicemente perché il percorso della filosofia si compie periodicamente ogni volta che si pone il problema della natura del pensiero che qualifica la vita per viverla secondo libertà. Il risultato nella biografia di Croce è il racconto di una vita esemplare che riesce a parlare alla nostra anima di italiani e di europei. La Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce è una sorta di Bildungsroman, un romanzo di formazione, in cui pensiero e vita sono come due fratelli che si cercano e rincorrono, lottano e abbracciano, si amano e sostengono nella consapevolezza del lavoro da compiere per vivere.
L’ultimo convegno di studi al quale ho preso parte a fine anno, voluto e organizzato da Pietro Soldi a Napoli su a Monte di Dio all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofi, aveva come titolo “La lezione di Croce e l’Italia attuale”. Lo dico in modo schietto: la lezione di Croce, soprattutto per l’Italia attuale, è la distinzione. Quale giorno fa un titolo del Corriere della Sera diceva: “Vero o falso? Pari sono. Non sappiamo più distinguere”. Ma non saper più distinguere vuol dire non sapere più giudicare e non saper giudicare vuol dire non saper pensare. Ma senza pensiero si vive da sonnambuli, la realtà sconfina nella irrealtà, diventa virtualità ma pur resta realtà: è come se ci fossimo persi la realtà mentre siamo noi ad esserci persi nella realtà. Perché il mondo reale possiamo non distinguerlo e non individuarlo ma quando vi battiamo il muso lo riconosciamo perché fa male. La lezione di Croce – sia detto in due parole – ruota intorno alla distinzione come strumento di lavoro. Le distinzioni crociane sono delle bussole: bello/brutto, vero/falso, storiografia/scienze, vita statale/vita morale. Soprattutto quest’ultima distinzione è per noi italiani importante: la vita statale è senz’altro importante ma, come ripeteva Croce, è una vita angusta, molto angusta, mentre la vita morale è ampia e larga e rigeneratrice. Si dà il caso, però, che in Italia la vita statale sia stata elevata a chiave di volta della società, dell’economia, della cultura e la cultura e la libertà invece di essere le forze creatrici dello Stato sono esse stesse dipendenti dallo Stato.
La cultura italiana si esprime nella formula dell’individualismo statalista per cui la politica è concepita esclusivamente come la presa del Palazzo d’Inverno, anche quando il Palazzo è vuoto. La domanda che questa cultura tribale formula è sempre la stessa: chi deve governare? Ma è una domanda arcaica e antimoderna perché, invece, dovremmo chiederci chi governa quanto deve governare? Al fondo della vita statale – dello Stato – c’è un problema di conoscenza: lo Stato non ha tutta la conoscenza o la verità che gli è attribuita per alibi o comodo e, dunque, la nostra libertà si configura nella vita civile soprattutto come arte o critica di non essere eccessivamente governati. Se siamo governati al di là del dovuto diventiamo pigri, conformisti e creiamo a noi stessi l’alibi di una presenza/assenza dello Stato che invocato come salvatore diventa carnefice. Come nei Fratelli Karamazov, anche gli italiani preferiscono il Grande Inquisitore a Cristo: la libertà è a tutti gli effetti un’eresia e gli uomini preferiscono al suo peso l’autorità e i suoi precetti. Nella cultura italiana c’è, da tempo ormai immemore – perché siamo un Paese abituato all’assenza della storia e della verità – una concezione distorta della libertà che è tipica della cultura dell’individualismo statalista espressa dal cattolicesimo e dal marxismo. Il sottosuolo, in questo caso, è da una parte della storia d’Italia e dall’altra di noi stessi.
Rosario Romeo disse che Croce fu sconfitto proprio quando ci fu il ritorno della libertà. E’ una cosa strana. Quella libertà aveva dentro sé ancora il morbo totalitario e rinunciava volontariamente alla libertà della cultura e del pensiero per iscriversi ai partiti di massa e accettare la verità rivelata del Partito. Basta questa osservazione per capire l’attualità di Croce e comprendere che la disputa su Croce e Anti-Croce non appartiene alla storia della filosofia ma alla più piccola storia della politica italiana.
Questo saggio è molto interessante. Il pensiero
di Croce è come un fiume carsico che riemerge in sintonia con il fluire della storia. .Le ragioni dovrebbero essere approfondite sotto il profilo dell’epistemologia storica della filosofia crociana.