di Amerigo Ciervo
Ai venti lettori che hanno apprezzato il mio articolo pubblicato su Sanniopress in coda alla campagna elettorale (vi prego di credermi: non è un vezzo manzoniano, sono proprio venti gli amici, dei 1938, che, avendomi richiesto l’amicizia e, probabilmente affacciandosi ogni tanto sulla mia bacheca, hanno indicato il loro gradimento all’articolo), rilancio un commento, come si dice, ex post. Non ho – deliberatamente – voluto scrivere nulla a caldo. La mia idea è che ognuno utilizzi i social come ritenga più giusto. Sugli argomenti, per me fondamentali (la politica, la scuola, la musica, il Napoli), avverto la necessità di riflettere. Più o meno lungamente. Sicché, in forma rapsodica, butto giù qualche elemento di riflessione, nella speranza di poterne discutere, in amicizia e con rispetto reciproco, con qualcuno di voi.
La durezza, anche estrema, della lunghissima campagna referendaria ha continuato a mostrare, su FB, una sua fenomenologia polemica. La scoppola è stata forte, imprevista nei numeri, forse salutare. Eppure non c’è molto da festeggiare. Per quanto mi riguarda, al di là della felice ripresa, sei mesi dopo la vergognosa astensione sulle trivelle, della partecipazione popolare a uno degli atti centrale della politica democratica, l’unico aspetto che mi rende orgoglioso dell’impegno profuso – da me e da tutti quelli che, sacrificando porzioni non limitate del proprio tempo e quantitativi finanche industriali di energie fisiche e nervose, si sono tuffati in una battaglia che sembrava non dovesse finire mai – è che, con il voto referendario, s’è preservata la nostra Costituzione da una pessima, incauta e disordinata riforma. So bene che non tutti quelli che hanno scelto di votare No siano stati ispirati da tale prospettiva. E’ tuttavia indubbio che una non modica quantità di No sia arrivata da un gruppo di uomini e di donne che hanno, e avranno sempre, a cuore la cura di quel pollone democratico, repubblicano e antifascista da cui s’è sviluppata gran parte della storia italiana dal secondo dopoguerra in poi. Questo gruppo – di cui, con altre organizzazioni (CGIL, ARCI) fa parte certamente l’ANPI – ha gridato chiaro e forte, con limpida autonomia, che nessuna incauta e maldestra spollonatura sarà più consentita. Né oggi, né in futuro.
Ma ora chiediamoci: ad armare la variegata “accozzaglia” degli oppositori non è stato l’ex-presidente del consiglio? Che ha commesso un marchiano errore politico, offrendo a tutti i suoi oppositori, su un piatto d’argento, non solo la possibilità di un giudizio solenne su quanto prodotto dal suo gabinetto, dal febbraio del 2014 ad oggi, ma di una sorta di giudizio di Dio sulla sua stessa persona? Spesso, a volersi prendere tutto, si finisce per perdere anche quello che si ha. Sicché il voto del quattro di dicembre scorso ci racconta molte cose. L’elenco non è breve. Ci racconta che diffondere paure e terrorismo psicologico non funziona più. Che non funzionano neppure le dichiarazioni e gli inviti dei personaggi celebri. Gli intellettuali, gli attori, i registi, i cantanti più o meno famosi, i cuochi e le ballerine vengono percepiti, dopo quasi un decennio di profonda crisi, come un manipolo di persone che vivono bene, frequentano meglio e sanno poco o nulla della vita “vera” di moltissime donne e di tantissimi uomini di questo paese. Che quasi tutti i mezzi d’informazione sono soliti raccontare solo le storie che vanno bene a chi comanda. Probabilmente per non perdere sostentamento e prebende pubbliche. Che, spesso, la realtà, anche in Italia, si preoccupa di smentire i racconti o, se preferite, le narrazioni o, se vogliamo essere ancora più fichi, lo storytelling. La verità è davvero un’altra. E ce la raccontano le cifre dell’ISTAT o del Censis, che parlano di precarizzazione dei giovani, con redditi sempre più vicini alla povertà, di famiglie che vivono con la metà di quanto guadagnavano le generazioni precedenti, di milioni di italiani che non si curano più perché la sanità è diventata una sorta di sancta sanctorum, un luogo riservato ed esclusivo, a cui hanno accesso soltanto pochi iniziati e privilegiati. Sempre le medesime cifre ci raccontano dei miracolosi voucher e dell’economia dei “lavoretti”. Quando, nel corso del mio intervento in occasione dell’incontro sul referendum, organizzato da Antonio Bruno Romano, per conto del Comitato dei giuristi e degli avvocati democratici, esibii i voucher di mia figlia, che avevo appena cambiato in un tabacchino – quindici euro per sei ore di lavoro svolte – spiegando che prima di cambiarla, la Costituzione, ne dovevano venire attuati i principi fondamentali, fui interrotto da alcuni sostenitori del Sì che mi accusarono di confondere gli ambiti. Da quanto detto, ci si potrà meravigliare del fatto che l’80% dei giovani abbia votato No? O avrà ragione l’ineffabile senatrice Puppato che, non paga di aver scatenato una tempesta in un bicchier d’acqua a proposito della sua richiesta di iscrizione all’ANPI, ha, qualche giorno fa, ironizzato sulla cosiddetta “fuga dei cervelli italiani” all’estero dove ha vinto il Sì. Ma se di un cervello si dovrà parlare, sarà di quello della Puppato e di quelli dei moltissimi deputati, senatori e dirigenti del PD che sembrano essersi bloccati su analisi e risposte che trovano la loro unica ragion d’essere nella terribile crisi (economica, politica, sociale, culturale) dalla quale – almeno a sentire le cifre – non saremmo ancora usciti. Per farla breve, dopo il 1989 furono riposte in soffitta le vecchie, semplici coordinate che avevano guidato, per più di un secolo, le analisi e le prassi politiche della sinistra italiana ed europea. Certo, tra mille contraddizioni, diecimila dibattiti e centomila divisioni. Ma che avevano contribuito a un poderoso ampliamento dei diritti e a un miglioramento complessivo delle condizioni delle classi subalterne. Esse furono sostituite con le mirabolanti, scoppiettanti parole d’ordine (mercato, eccellenze, merito e via fantasticando), coniate, sulle rive del Tamigi, da quel celebrato leader laburista che si collegava, idealmente, alla politica democratica clintoniana. Si parlò, qualcuno ancora se ne ricorda, di “Ulivo mondiale”. A moltissimi, anche ai poveri rottamati D’Alema e Uàlter, apparvero come una sorta di rivelazione che il migliore dei mondi possibili si stava costruendo e che occorreva smetterla, una volta per tutte, con quelle arcaiche, superate ricette di rancido sapore keinesiano. Si recitava dovunque il mantra che il “privato è bello”. Si parlava di eccellenze e di merito. Ma, nel frattempo, la forbice dell’ingiustizia si allargava sempre di più. La scuola pubblica – ne parlo, ne posso parlare, perché ci lavoro da più di trentacinque anni – è stata una delle poche casematte dove si è stati in grado, nonostante gli stipendi più bassi d’Europa, di reggere l’attacco mediatico-politico, proveniente sia dalla sinistra di Berlinguer (Luigi, ovviamente) che dalla destra berlusconiana (le celebrate tre “i”: impresa, inglese, informatica) e di conservare lo spirito e la lettera dei principi costituzionali. Matteo Renzi non ha fatto altro che togliersi la maschera e, insieme, togliere la maschera al più grande partito del cosiddetto centrosinistra italiana. Ha solo “radicalizzato”, anche in virtù del suo carattere guascone, analisi, alleanze e prassi politiche che, una ventina d’anni fa, già avevano sognato di praticare i sunnominati rottamati. La sua è stata solo una mera operazione di potere che, nella folle manomissione della Costituzione repubblicana, doveva trovare l’ultimo sigillo.
Il quattro dicembre ha avuto il merito di spezzare questo sigillo. La nuova situazione ci chiama ora a scelte severe ma radicali. A leggere post, articoli ed altro, sembra che, per alcuni, la lezione non sia servita a nulla se non ad avvelenare viepiù animi e rapporti. Ma il problema è: ci sarà la possibilità di ritrovare una politica in grado di parlare, con chiarezza, sulla situazione del paese (fino a qualche mese fa, per esempio, ci ripetevano che il sistema bancario italiano era solidissimo …)? Di affrontare, finalmente, il grande problema del lavoro? Di ritornare a sostenere, con forza e con rigore, gli interessi dei più deboli? Ma, soprattutto, di lasciare agli altri quell’idea, malata, che sia necessario puntare tutto su un solo personaggio, e di riscoprire, viceversa, la forza e la grandezza dell’intelligenza politica collettiva, capace di esprimere e selezionare nuovi gruppi dirigenti in grado di confrontarsi con la complessità del nostro tempo? E’ questo che ci viene richiesto. Una semplicità, per dirla con Brecht, che è difficile a farsi. Cari venti lettori, forse dovremo cominciare a parlarne. Qui e ora.