di Giancristiano Desiderio
Il giorno dopo la rivolta dei detenuti nel carcere per minorenni. Tutto come prima ad Airola e all’Istituto penale per minorenni, in apparenza. Ma tutto è cambiato. A iniziare dalla notte quando i tre ideatori e fomentatori della ribellione sono stati divisi e trasferiti: il primo a Nisida, un altro a Bari, il terzo a Catanzaro. Tutti sono maggiorenni. E già qui vi è la prima «questione» da considerare: nel carcere di Airola al momento della rivolta c’erano trentanove detenuti dei quali dodici erano maggiorenni. Secondo Alessandro De Pasquale, segretario nazionale dell’Ugl per la polizia penitenziaria, «la rivolta ha una causa fondamentale ed è la riforma della giustizia minorile che oggi consente a detenuti di età fino ai 25 anni di essere ristretti nelle carceri minorili».
L’unione di soggetti adulti e pericolosi con detenuti minorenni è stata da subito indicata come una delle cause del dramma del carcere caudino: «La presenza di detenuti maggiorenni è impropria e deleteria — è il ragionamento di De Pasquale — perché i più giovani vengono trascinati dai più grandi, spesso veri boss della criminalità organizzata, spingendoli non solo a compiere gesti avventati, ma anche complicando la loro riabilitazione. La riforma va assolutamente ripensata e corretta, imponendo un limite di età che non superi i 19 anni e prevedendo un trattamento individuale, commisurato ai problemi e alle potenzialità di ogni singolo soggetto ristretto». Al di là dei danni materiali, che pur non sono stati pochi — una prima conta parla di una cifra di oltre 30 mila euro — il vero «guasto» che c’è oggi nel carcere di corso Montella è soprattutto rieducativo e morale. Non sarà facile rimarginare la ferita di un tessuto penale che, andando indietro nella memoria, non ha mai fatto registrare fatti così violenti e premeditati. Per il direttore della struttura Antonio Di Lauro e per il comandante della polizia penitenziaria Pasquale Spampanato, che proprio ieri con un battesimo di fuoco ha preso servizio ad Airola, non sarà un lavoro facile.
I tre detenuti maggiorenni, che sono stati trasferiti nottetempo, sono affiliati a clan camorristici di Napoli dell’area Secondigliano e Ponticelli. In particolare, uno dei tre è affiliato al clan D’Amico: ha commesso un omicidio con occultamento di cadavere ed è stato condannato a 16 anni di reclusione con il 416 bis. Altri due sono detenuti comuni che poi attraverso il carcere si sono affiliati al clan. Proprio l’appartenenza dei detenuti agli organizzati clan malavitosi è all’origine della rivolta: «Alcuni di questi ragazzi della camorra hanno come obiettivo preciso la carriera criminale — ha ripetuto più volte Giuseppe Centomani, direttore del Centro giustizia minorile della Campania intervenuto anche lui ad Airola — e la rivolta è la loro dimostrazione di forza con la quale vogliono creare problemi e passare al carcere duro degli adulti». La spiegazione sarà utile a dare un senso alla rivolta e a razionalizzarla ma di certo con il concetto di «carriera criminale» fornisce un quadro ancora più fosco e inquietante dentro e fuori dal carcere.
Si aggiunga un elemento non secondario ossia che i «baby boss» e le «baby gang» non sono fenomeni sporadici e isolati; sono piuttosto quasi una tendenza nei quartieri di Napoli che ora si afferma anche negli istituti di pena come dimostra la rivolta nel carcere della Valle Caudina. C’è da chiedersi perché soggetti così pericolosi e «in carriera» si trovassero in un carcere per minori. Oggi sono stati trasferiti e divisi nell’intenzione di neutralizzarli, ma ieri perché sono stati accomunati e affiancati ai minori? «La rivolta ad Airola è un fatto preoccupante — ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando — e cercheremo di capire che cosa è avvenuto». In realtà, cosa è avvenuto è abbastanza chiaro: in un istituto di pena per minori vi erano ben dodici detenuti maggiorenni e tra questi almeno quattro erano affiliati a clan della camorra. La legge consente la convivenza nello stesso carcere di detenuti minorenni e maggiorenni ma tale convivenza non può confidare su strutture adeguate per prevenire ed evitare confusione, influenze, aggressioni e, come ieri, violenze e rivolte. Se gli agenti, incappucciati e in assetto anti-sommossa, non fossero intervenuti, oggi racconteremmo una storia criminale ancor più cruda e cruenta.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 7 settembre 2016