di Antonio Medici
Alle ventidue, dopo una mezz’ora di attesa, il chierico, si perché oramai le pizzerie sono luoghi sacri votati al culto dell’impasto di acqua e farina, avverte con bella faccia di corno e artefatto tono di rammarico: ”il pomodorino giallo è finito, ma lo stanno portando”. Figurarsi il vecchio contadino che imbraccia il piennolo giallo e si butta in Ape a scavezzacollo lungo le pendici del Vesuvio, costretto tra il buio cupo della terra lavica e quello stellato della notte estiva, perché si appronti la pizza ordinata dal cliente viziosetto e sofisticato è immagine che alcun animo nobile può reggere. Quando il maitre anche chierico, dunque, lascia cadere con tripla faccia di corno carpiata il “se non vuole attendere …” la pietà per il pover’uomo sul tre ruote che sta rischiando la vita assume la foggia del pomodoro rosso: “me la faccia col pomodoro che ha”. Soddisfatto e sornione il ditino sacro lancia la nuova comanda wireless.
Il fatto ė che oggi come certa politica ipocrita, il cibo è narrazione e più che altro finzione. I menù tracimano di chicche e bonbon che manco la casa del più magnifico e ricco tra i principi medievali, pomodori gialli, verdi, a cuore di bue, patate interrate, sterrate, rosse, viola, cetriolo di qui, zucchina di lì. Tutto spesso dello stesso sapore, quello dell’acqua.
Ottone Von Bismarck guarda entusiasta dal cielo le avanzate dirompenti di “manzette prussiane”, proposte a pié sospinto in ogni ristorante e braceria (termine orribile) che intenda darsi un certo tono. I prussiani, almeno i manzi, resuscitati dal sottovuoto, dominano il mondo dei menù e delle griglie. Piccole sacche di resistenza ancora restano in mano agli Angus scozzesi ora alleati del Kobe giapponese. Marchigiana e Chianina, oramai, ripudiate anche dall’esercito del chilometrozero, sono costrette a cercare asilo sulle placche ardenti americane dei McDonald.
Le alici di Cetara, fossero tante quanto quelle citate nei menù di osterie, trattorie e pizzerie, non ci sarebbe spazio per l’acqua nello spazio antistante la piccola cittadina costiera. A Bronte, in Sicilia, risiedono diciannovemila persone e diciannove miliardi di pistacchi che si autoriproducono ogni anno. I presìdi Slow Food che condiscono pizze o insaporiscono pietanze sono più dei prèsidi di scuola.
Ci sono poi le cotture lunghe, le cotture sottovuoto, a bassa temperature, le frollature infinite, i roner (oggetti più misteriosi della Stazione Spaziale Internazionale orbitante attorno alla terra), i marchi di pasta e chi più ne ha, più ne metta.
Il menù, insomma, oggi ė un racconto breve più o meno scrupolosamente costruito e la creatività, anche della sintassi, è più nella scrittura che non nell’elaborazione dei piatti. Talora, se ci si presta attenzione, occorre più tempo per leggere la definizione di un antipasto che non per ingurgitarlo, salvo che non sia scollata la dentiera o sia abbia mal di denti o una fastidiosa afta affligga il palato.
Eccentricamente, ma non poi tanto, il servizio non gode della stessa cura del menù, sicché capita che i camerieri stessi non sappiano spiegare l’arcano di un piatto descritto in carta con eccesso di estro semantico o abbiano modi, diciamo così, incoerenti con la grazia delle belle parole che definiscono i piatti.
Che dire, inoltre, della sgualcitura e di un certo laidume spalmato su copertine e bordi di pagine con le ricercate parole, home printed in caratteri sottili, frequentemente di colore amaranto o grigio e comunque con scarso contrasto, dI tal che il commensale subito assuma un atteggiamento di sottomissione alla sua cecità incipiente ed alla finezza (oibò) dello chef.
Quando, poi, i piatti son serviti, ci si rende conto che la bistecca teutonica arrostita male è peggio del secondo taglio rigirato in padella, le alici più che da Cetara giungono dal barattolo di sale del discount e la cottura lunga della pasta ha ammollato le pennette. Il commensale di gusto maleducato apprezzerà comunque, ancora estasiato dalla oscenità raffinata ed artefatta del menù, quello dal palato più fine rischierà la galera, pronto a scaricare e scatenare la sua rabbia sul primo malcapitato.
Tra imperizia e bugie, ignoranza e disgusto, insomma, si consuma il pessimo finale, spesso a base di tortino a cioccolato dal cuore morbido, del romanzo, d’appendicite più che d’appendice, dei menù dell’era della gastrofuffa.
Menù gastrofuffa
Osti uniti editori
Ognidove, €25/30 a persona