di Giancristiano Desiderio
La religione immagina un Giudizio Universale in un tempo senza tempo e in un luogo senza luogo mentre l’unico vero giudizio universale è quello radicato nella nostra vita che per essere vissuta in modo umanamente degno ha bisogno di essere giudiziosamente illuminata e tratta periodicamente fuori dalle oscurità della platonica Caverna. Non ci facciamo neanche caso, come non si fa caso alle cose che si hanno sotto il naso, ma il nostro ricorso ai giudizi di varia natura è costante perché è la vita che ci chiede di essere giudicata per essere vissuta. In fondo, la vita umana è un sistema di giudizi che usiamo nel modo più naturale per capire la pluralità del mondo e orientarci su cosa fare e come essere. Il giudizio autobiografico, come il cristianissimo esame di coscienza, funziona un po’ come una lavatrice che lava, sciacqua e centrifuga i panni: anche noi, soprattutto noi, necessitiamo di lavarci per liberarci delle scorie e delle impurità che la vita pratica, che tutto intorno ci preme senza tregua, ci lascia addosso. Noi ci giudichiamo, a volte con severità e a volte con umana indulgenza, e quel giudizio è un ristoro, una sosta e un consiglio per poi rituffarci nuovamente nella vita ordinaria e straordinaria che ci richiama all’ordine e al disordine e ci lascerà nuovi segni e ferite che chiederanno ancora di essere leccate e curate.
Potrà apparire curioso, ma ciò che c’è da sapere è quasi tutto qua. Si immagina – ah, quante cose si immaginano! – che il sapere sia in qualche luogo dotto e sommo, che sia il frutto di una testa eccelsa che è riuscita in un ritrovato speciale mentre il sapere è un bene diffuso e disperso tra le teste e le vite ordinarie. In particolare, il sapere filosofico è degli uomini in quanto uomini ossia esseri pensanti e non è una dottrina esclusiva dei professori che a volte, usi a ripetere le filastrocche e le formule fisse e fesse, dimostrano di non essere pensanti. Come si colloca il Giudizio Universale nella valle di Giosafat, così si ritiene che il pensiero filosofico – o pensiero e basta – sia nelle aule universitarie. Che follia, monsignore. La filosofia italiana, soprattutto la filosofia italiana per non dir poi della greca, è lì con la sua storia a dimostrarci, se ce ne fosse bisogno, di essere nata e di essersi formata nelle carceri, altro che nell’università. Bruno fu arrestato, processato e arso vivo e ai cardinali inquisitori che gli lessero la sentenza disse: “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”; Campanella passò più anni in galera che in libertà; Galilei fu costretto al processo e all’abiura, Vico è Vico nelle sofferenze, nella solitudine e nello studio privato e disperato e il “catalogo” potrebbe continuare ancora per molto, fino ai nostri giorni, per poi soffermarci sulla vita e l’opera di Croce che è stato il maggior Maestro della cultura libera ed extra-accademica.
Il pensiero gira per il mondo anche quando è incarcerato. La sua vita è quella della pratica della libertà perché è più la libertà a farci veri che la verità a farci liberi. Se volete garantire la libertà la prima cosa da mettere in questione è la conoscenza perché è nella presunzione fatale della verità assoluta che si cela prima il tiranno filosofico e poi il tiranno politico con i suoi servi sciocchi. Ecco cos’è il giudizio universale: un insegnante di libertà. Lo è per sua intima genesi e natura giacché il giudizio, che è l’esercizio critico del pensiero, è vitale perché per essere esercitato ha bisogno dei bisogni ossia dei contenuti della vita che sono i desideri, le passioni, le intuizioni, le volontà, le azioni. Il giudizio è sempre formato da un soggetto e un predicato perché la vita desidera essere qualificata, essere detta, essere pronunciata, identificata nella sua vasta diversità. E’ sempre in contatto diretto con la vita e la storia: così il giudizio è anti-ideologico e anti-scolastico. La vita umana è due volte creativa: genera fatti che si convertono in giudizi. E il giudizio – che è il classico pensiero dell’essere perché viene dall’essere e va all’essere – soddisfa la vita nella sua esigenza di pienezza traducendo, momentaneamente, i suoi atti in detti. E’ un lavoro continuo che costa fatica. La vita ambisce a essere giudiziosa per conservarsi libera e il giudizio è una sorta di custode o un allenatore che insegna l’equilibrio. Ma l’ambizione non sempre è piena e il giudizio, quando arriva ed è vero, costa lacrime, sacrifici, pentimenti, sensi di colpa. Il buon giudicare non è facile ma non perché sia difficile, piuttosto perché urta con fatica contro la vita che chiede che le ferite siano curate e risanate. Un buon giudizio è una buona cicatrice. Non bisogna neanche affliggersi nelle colpe ma reagire dicendo a se stessi: “Hai sbagliato, hai peccato ma ora, forza, rimettiti al lavoro e risanati”.
La pratica della libertà è la fonte del giudizio dal momento che lo scopo della verità – che è il giudizio storico espresso – non è quello di lasciare l’uomo come imbambolato e stupito ma quello di restituirlo cosciente alla vita attiva in cui i bisogni, i desideri, gli affetti, i doveri chiedono di essere soddisfatti nuovamente, magari in più alto grado. La colpa che abbiamo noi è quella di sapere che non possiamo permanere in uno stato beato o naturale che non esiste se non in immagine. Tutto è sottoposto alla fatica della lavorazione della vita, perfino la grazia. La vita amorosa – e tutta la vita è amorosa perché respinge la morte – è invivibile senza desideri e passioni che chiedono non solo soddisfazione ma anche conoscenza per essere rischiarati e vissuti umanamente. Persino il peccato implica la conoscenza, soprattutto il peccato, cioè la pecca di non esser stato. Ma senza non si vive. L’ostacolo, la mancanza, il peso, il non-essere, insomma, il male che ci portiamo dentro è come un fondo di energia da convertire in vita decente. Pensare di farne a meno è non pensare la vita ma immaginarla, rimpiangerla, ingiuriarla. In fondo, l’idea di poter vivere in un mondo beato e indistruttibile non è neanche un bel sogno ma un’espressione di egoismo.
Le due cose, passione e giudizio, amore e verità, luce ed ombra, stanno insieme nella distinzione perché nulla si fa di bello e di buono nella vita senza passare attraverso peccata mundi. E’ vero, bisogna sempre portare un gallo ad Asclepio, ma non per un’altra vita ma per questa vita. La vita come un carcere – secondo la tradizione socratico-platonica – non è la vita da abbandonare per una vita eterna. La vita umana è davvero un carcere perché non è beata ma lottante e creante in perpetuo vita nova ossia vita che si libera nello sforzo non sempre vano di ascendere de claritate in claritatem. La vita senza vita, con tutto ciò che comporta, nessuno di noi la vuole e ciò che desideriamo quando pronunciamo le parole vita vera non è una vita dopo la vita ma questa stessa vita in cui le gioie si convertono in dolori e i dolori diventano nuove gioie, la vita in cui le nostre passioni, i nostri desideri, le nostre paure, le nostre colpe, le nostre debolezze e le nostre forze possano essere rischiarate e innalzate un palmo più sopra della nostra condizione di felici animali infelici.