di Amerigo Ciervo
Dicette ‘o pappice vicino ‘a noce, ramme ‘o tiempo ca te sportose. ‘O pappice – per i non napoletani e per gli argentini che non apprezzano, vuol dire l’insetto – nell’attuale contesto storico-calcistico, sono alcune pratiche che – ci vorrà del tempo, certo – finiranno col distruggere il gioco del calcio in Italia. Di cui resterà, di fatto, solo il guscio vuoto.
Quando, da bambini, ci si divertiva, soprattutto d’estate, a dare vita a partite su partite, dovunque ci si trovasse, in tutti gli spazi dove la nostra fantasia era in grado di creare il rettangolo magico, con le rituali quattro pietre a marcarne l’ultimo confine – allora non c’erano le scuole-calcio – le squadre si formavano tirando a sorte per dare inizio alla scelta. Qualora, nel corso della partita, si fossero rivelate smaccatamente squilibrate, si rimescolava tutto e si ricominciava daccapo. Si dirà: ma questo ha valore solo per un gioco da ragazzi, il calcio, aggiungono gli esperti del campo, non è più un gioco. E’ diventato una cosa seria. Un’impresa. Lungi da me pensare di poter ritornare all’età dell’oro, che è esistita solo nell’ispirazione poetica o in virtù di certe emozioni che chiamiamo nostalgia. Non c’è mai stata, nel calcio organizzato, un’età dell’oro. Non riesco tuttavia a comprendere – in realtà lo comprendo benissimo – questo fideismo assoluto nell’economia che muove tutte le nostre esistenze e che ci tiene ideologicamente attaccati a questi passaggi straripanti di danaro nel cui nome esclusivo, per davvero, tutto si tiene e tutto si giustifica. E’ l’equivalente di quanto avviene a scuola, dove si parla, ormai, solo di crediti e di debiti, di azienda e di capitale umano. Insomma, andremo allo stadio dopo aver letto il Sole 24 ore ed esserci informati sullo spread, sulle azioni e sulle obbligazioni.
Ma il “gioco” non è lo spazio in cui, magari una sola volta, come a Carnevale, si possono invertire le gerarchie della vita reale? E se questo spazio lo si annulla, rimodellandolo ad immagine e somiglianza della realtà in cui si vive, cosa resterà di esso? A che cosa servirà “tifare” per una squadra? Gioire per una vittoria? Soffrire per una sconfitta? Imprecare per una decisione sbagliata dell’arbitro? Emozionarsi per un colpo di classe? “Amare” un campione che ha vestito la maglia della tua vita? Praticamente a nulla. Perché, ci dicono, ci stanno dicendo, “i giocatori sono professionisti e vanno, non dove li porta il cuore, ma dove trovano maggiore convenienza”. E i tifosi? Devono tacere e comprendere, evitando, per favore, espressioni come “tradimento” o altro. Che si limitino ad andare al campo, dove saranno accolti dai simpatici cori di sfottò che non sono, per carità, ma che vai a pensare razzismo territoriale, ad abbonarsi alle televisioni e a “crescere”, finalmente, grazie alle lezioni dei soloni di SKY.
Il cosiddetto “gioco” diventa, in tal modo, la sovrastruttura “ideologica” del rapporto di forza presente nella società. Le ultime statistiche ISTAT ci dicono che in Italia la forbice tra ricchi e poveri s’è ulteriormente allargata. Se questo è vero – come è vero – non sarà uno scandalo per nessuno se si vada allargando la forbice anche nello “spazio del gioco.” E potrebbe apparire divertente se non fosse inquietante il fatto che molti di coloro che, almeno a parole, sostengono che il valore, sociale e politico, dell’uguaglianza debba sostanziarsi nelle pari opportunità di partenza per tutti, quando si riferiscono al “campo del gioco”, trovino del tutto normali, anzi apprezzino le enormi differenze che si concretizzano, per la propria squadra, oltre che nel potersi comprare i giocatori migliori, nell’affettuosa “cura” padronale dei cosiddetti poteri di garanzia e, infine, nelle disgustose narrazioni di moltissime testate giornalistiche, siti, e, soprattutto, trasmissioni televisive dove vai a cercare obiettività e trovi, invece, un modello informativo che, nel migliore dei casi, si configura come un vero e proprio ufficio stampa camuffato dei potenti o, nel peggiore, come una spudorata pratica di meretricio. La maglia di un giocatore finita nel cesso, la pizza e i mandolini tirano certamente più di talune frequentazioni con la ndrangheta…
Così vanno le cose nel bel paese. Dove la dialettica del servo che diventa signore, attraverso l’impegno del lavoro, sembra destinata – mi dispiace per il povero Hegel – a non inverarsi mai. Vige, viceversa, l’italico “articolo venti”, che ben presto comprendono anche i lustrati giovanotti giunti, dalle nostre parti, per lavorare a cinque-sette milioni di euro l’anno. Da noi, vale l’estetica dell’ostrica e dello scoglio. Il servo deve restare servo: “Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.” Nessun figlio di emigrato, da noi, arriverà ad essere general manager della Ford o della Crhysler, come Lee Iacocca, il figlio di Nicola e di Antonietta Perrotta, da san Marco dei Cavoti. Sarà un caso che, da quelle parti, anche lo sport funzioni diversamente? Che chi avrà la possibilità di mettere sotto contratto i migliori giocatori sono le squadre escluse dai Playoff? E le peggiori squadre avranno maggiori probabilità nel sorteggio che sancisce l’ordine di scelta dei giocatori migliori? Un amico mi chiede: Stai elaborando qualche lutto? Certo che no. Dopo l’uscita di scena di Maradona, noi, tifosi di una certa età, non dobbiamo elaborare più nulla. Cerco di utilizzare il calcio – che mi piace e mi diverte – come uno fra i tanti schemi interpretativi del mondo. Sicché le celebrate plusvalenze non mi emozionano, mi commuove, viceversa, l’ultimo goal del centravanti del Napoli contro il Frosinone, ma soprattutto ancora mi emoziona lo striscione comparso, nel maggio del 1987, nei pressi del cimitero di Poggioreale, sul quale mani anonime avevano scritto: Nonno, l’abbiamo vinto anche per te! Tutto il resto possiamo pure ascriverlo nelle problematiche e anche un po’ maleodoranti fenomenologie dei tempi nostri.