di Giancristiano Desiderio
L’uomo, soprattutto nella sua giovinezza, è portato in modo del tutto naturale ad affermare se stesso sul mondo, a fare a pugni con Dio, nell’intenzione di cambiare il mondo e di interrogare Dio. Nella sua maturità e nella sua vecchiezza, invece, quello stesso uomo, guarda il mondo che lo sommerge e, se crede o meno in un Dio, rivolgendosi a ciò che lo sovrasta ne accetta la forza, oscura o splendente che sia. Ciò che sembrava essere la cosa più concreta e solida – l’io – è diventata la più effimera e ormai prossima alla dissoluzione. Proprio l’io è ciò che è più concreto e più ineffabile al contempo. Cosa resta di un uomo? L’opera. Sempre che abbia vissuto secondo una linea di lavoro, caduta e redenzione continua, altrimenti non resterà nulla, se non un nome muto. L’opera, che sia quella della famiglia, che sia quella della vita pubblica, che sia vita morale o attività economica, è insieme nostra e altrui. Guardare la vita di un uomo – come quella di una città o di una nazione, di un tempo e di una classe dirigente – giudicare ossia ricostruire l’opera sua è un atto di grande onestà intellettuale perché si lasciano da banda le pecche e le manchevolezze e le debolezze – chi di noi non ne ha? – e si apprezza e dà valore a ciò che valore ha: il lavoro compiuto.
Potrà sembrare ingeneroso e crudele o semplicemente stoico mettere da parte l’io, ossia l’uomo reale, e avanzare in primo piano quel che è stato: i fatti, gli atti, le cose accadute. Tuttavia, come non accorgersi che proprio gli accadimenti sono la manifestazione e concretizzazione della nostra esperienza del mondo che è il frutto della nostra iniziativa e della nostra libertà e, insieme, del posto che la Provvidenza, che indubbiamente ne sa più di noi, ci ha assegnato nel mondo? La storia – le cose accadute e che accadono – è come vuole Croce storia come pensiero e storia come azione. La storia come pensiero è ciò che è stato e che ricostruiamo nel giudizio storico conoscendo le opere che possiamo intendere perché sono legate alla nostra stessa esperienza del mondo che si lascia dire o predicare. La storia come azione è la nostra volizione-azione individuale in cui la nostra creatività e la nostra libertà si manifestano in quella lotta con cui si cerca di superare gli ostacoli, le debolezze, i mali, le passioni senza le quali il mondo non sarebbe più bello e più giusto e più buono e più pacifico ma non sarebbe punto. Il giudizio storico non nega il giudizio morale e il giudizio morale non nega il giudizio storico: hanno semplicemente contenuti diversi. L’io, che ha la sua esistenza soprattutto nel campo vitale e morale, non nutre ingiustificate manie di grandezza e proprio perché dedica se stesso alla lavorazione della sua vita, che ora sale e ora scende, ora progredisce e ora decade, non ha un suo orgoglio prometeico da far valere e, all’inverso, per conservare la sua libertà e nutrirla di sale e vita morale riconosce i suoi limiti e concepisce la sua esistenza come un gioco di controllo e abbandono. E’ in questo gioco che cresce la consapevolezza di sé e si nutre il proprio vigore perché l’individuo – proprio come il giocatore – rapportandosi ai suoi limiti e alla conoscenza della situazione crea a se stesso le condizioni per superarsi e riprovarci, migliorando e invocando la grazia che lo assiste nella fortificazione di una umanissima volontà. Ritorna alla mente quella pagina della Storia del Regno di Napoli, così significativa per la coscienza morale di un italiano del Mezzogiorno come me, in cui il filosofo evidenzia il valore dell’iniziativa umana e così “insieme col limite, il singolo avverte anche la propria potenza e la propria responsabilità, e il dovere di far sempre, di fare senza indugio quel che gli spetta fare, farlo con molti o con pochi compagni o affatto solo, farlo per il presente o farlo per l’avvenire. Che cosa importa che gli altri non seguano o non seguano subito, che cosa importa che gli altri sragionino o folleggino, e concependo bassamente la vita, in simil modo la vivano?”.
La vita operosa non sa che farsene del vile moralismo e come ha smentito il determinismo e ogni filosofia della storia – premessa inesauribile del pericolo totalitario – è intenta a seguire la linea del lavoro in cui la vita, uscita dal pericolo ritornante della sua dissoluzione ora angosciante e ora in preda alla dissipazione compiaciuta, non si attarda alla divisione in buoni e cattivi ma costruisce se stessa senza esaltazioni e con il pudore che è delle cose umane che sono sante e dannate insieme. Il vecchio io della vecchia metafisica – l’anima-sostanza – lascia il campo alla libera creatività umana che ha il compito di essere onesta nella storiografia e umile e tenace nei doveri che la vita senza sosta ci reca innanzi. In questa libertà, che è la dignità nostra, l’uomo è sempre a rischio di perdersi perché la stessa libertà è un equilibrio precario che dobbiamo rafforzare con il bene dell’intelletto e l’avvedutezza della volontà. Ci sono forze oscure che muovono i fili della nostra vita e la lucidità della mente sta nella virtù del riconoscimento, non certo nel cambiamento del mondo, tantomeno nel compiacimento della disgregazione. Non tutto è nelle nostre mani, per fortuna. E il male maggiore per l’uomo sarebbe proprio quello di poter avere, anche per soli cinque minuti come si dice volgarmente, in mano i destini del mondo e rifarli secondo il proprio piacere. E’ come affacciarsi sull’abisso.
I nostri giudizi pratici, quelli con cui regoliamo la nostra esistenza e meniamo la vita in modo più o meno decente, non sono né il giudizio storiografico – che è una sorta di agostiniana Città di Dio – né l’occhio divino con cui guardare cielo mare e terra e le viscere del mondo. Se siamo liberi è proprio perché non possiamo tutto. “Siamo forse noi – mi ammonisce Croce – i creatori della nostra libertà?”. Noi che veniamo al mondo in un certo modo, con una nostra natura, con tendenze, vocazioni e che, con la consapevolezza della vita sofferente, ci rendiamo conto che quella libertà non avremmo avuto modo non solo di crearla ma neanche di concepirla perché, appunto, sopraffatti dalle disposizioni naturali e avvinti al piacere e al dolore. Quel piacere e quel dolore che sono la nostra prima radice dalla quale non ci staccheremo mai nella nostra vita mortale ma che, per far qualcosa di buono, abbiamo il dovere di elevare o di redimere giorno per giorno lavorando nella consapevolezza che lo dovremmo fare fino alla fine dei giorni senza nutrire la diabolica illusione di raccogliere il mondo nel nostro sguardo per cancellarne il male perché, quel che chiamiamo male, è ciò che ci dà la forza di vivere. E allora “il Deus est in nobis non è solo dei poeti, ma degli uomini tutti nelle opere tutte per varie che siano”. Giudichiamo le nostre opere, accettiamo come dono l’opera divina.