di Amerigo Ciervo
Nel 1994, per i tipi della Donzelli Editore, fu pubblicato un aureo libretto di uno dei più grandi filosofi della politica del Novecento, Norberto Bobbio, intitolato Destra e Sinistra, ragioni e significati di una distinzione politica. Sono passati solo ventidue anni, ma sembra che la nostra percezione ce ne faccia calcolare, di anni trascorsi, almeno un centinaio. Eppure, se si vuole tentare, o, almeno, abbozzare una lettura di quanto è accaduto nelle elezioni amministrative del giugno 2016, non sarà male ritornare a quel breve saggio del filosofo torinese. Preciso che il mio sarà un discorso generale. Non intendo riferirmi alla città di Benevento di cui molti elementi mi sfuggono. Ovviamente, nella generalità del mio dire entra – e come non potrebbe? – anche la città capoluogo del Sannio beneventano. Su cui qualche domanda sarà pure necessario porsi. Oggi e in futuro. Una, per esempio sorge davvero spontanea: ma a che livello di considerazione è arrivata la cosiddetta sinistra della città se, per moltissimi elettori, è sembrata la soluzione migliore la scelta di eleggere a sindaco un politico, certamente noto, ma non di primissimo pelo?
Ma sarà meglio tornare a Bobbio che, in estrema sintesi, sostiene la seguente tesi: la contrapposizione di destra e sinistra rappresenta un tipico modo di pensare per diadi che è possibile ritrovare in tutti i campi del sapere: in sociologia (società-comunità), in economia (mercato-piano), in diritto (pubblico-privato), in estetica (classico-romantico), in filosofia (immanenza-trascendenza). Ora alcune di queste diadi sono antitetiche, interpretando e concependo il mondo come composto di realtà divergenti. Altre sono, invece, complementari, perché con esse si tende a vedere l’universo come a un qualcosa di composto da enti che convergono verso l’unificazione e la sintesi. La diade “destra-sinistra” apparterrebbe al primo tipo. Eppure, da una ventina d’anni ci sentiamo ripetere che la distinzione fra destra e sinistra, nata con la Rivoluzione francese e servita a separare il mondo in due parti opposte, non ha più nessun senso. Che è roba del Novecento. I più colti, citando Sartre, ne parlano come di “scatole vuote”. O, per stare più sul lieve, ci ricordano Gaber e la sua straordinaria Destra-Sinistra.
Ma è davvero così? Con la storiellina delle scatole vuote, negli ultimi decenni, a sinistra ci hanno fatto ingoiare davvero di tutto: la competizione senza controllo, la supremazia dell’economia finanziaria su quella reale, e dell’economia sulla politica, la primazia della tecnica e la irrisione e la distruzione della cultura umanistica, la spersonalizzazione dell’impresa, la mitizzazione assoluta del profitto, la scuola-azienda con debiti, crediti e clienti. E, infine, la modifica delle Costituzioni democratiche e antifasciste che, secondo la Jp Morgan, la banca d’affari statunitense, considerata dal governo Usa responsabile della crisi dei subprime, perché, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presenterebbero caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione a causa della forte influenza di idee socialiste. Ci hanno fatto credere, ora con le laccate articolesse di opinionisti e di intellettuali tanto al chilo, diffuse sui grandi giornali nazionali, ora con le più schematiche e semplicistiche lezioncine di Agitprop improvvisati, che tutta questa roba era il nuovo, il moderno. In breve: la panacea per tutti i mali del mondo. Il guaio è che le narrazioni passano e le percentuali e i voti a partiti e movimenti restano. E, sotto il cumulo delle macerie che la crisi ha prodotto, è possibile scorgere, giorno dopo giorno, diritti negati, povertà crescenti, ingiustizie profonde.
Ora a me pare che i risultati di domenica scorsa, fatta la tara delle motivazioni locali, ci dicono che, probabilmente, a questi raccontini la maggioranza degli italiani non crede più. Roma è di sicuro un caso a sé. La morte assistita del PD era già iniziata da alcuni anni. Ma, mi chiedo, perché a Torino un buon sindaco, forse solo un po’ malaccorto nelle profezie in cui, senza volere, ci prende sempre, un dirigente storico del PCI e del PDS, perde con una giovane, brillante e tosta, come la Appendino? E perché, viceversa, a Milano e a Cagliari, Sala e Zedda hanno vinto? Credo sia arrivato il tempo – a meno di non voler consegnare il paese al movimento 5 stelle, per il quale vota gente di sinistra ma che, di qui a poco, sarà chiamato a sciogliere molti e intricatissimi nodi – che si ritorni a quella diade di cui si parlava più sopra. La sinistra faccia la sinistra. Il che significa che bisognerà mettere in campo il coraggio e la volontà di resettare questi venti anni di follia e ricominciare a studiare con serietà e rigore, per poter costruire un progetto di società in cui le nostre parole d’ordine, quelle della nostra storia, calate nella realtà di oggi, possano ridare speranza che un cambiamento profondo è possibile, anche in paese come il nostro. Sarebbe bello se pure da noi potessero spuntare un Jeremy Corbyn o un Bernie Sanders. Leader forti ma non arroganti, autorevoli ma non tracotanti. Capaci di parlare al cuore delle persone, oltre che alle loro menti. E l’occasione, per la sinistra, di ricominciare a fare la sinistra, ce l’ha su un piatto d’argento. Ed è il referendum di ottobre. A difesa di quella Costituzione che i banchieri americani di Jp Morgan hanno “consigliato” di cambiare. Comprenderà, il giovane leader, che il partito della nazione non c’entra nulla con il nostro mondo e la nostra storia? Io non nutro molte speranze, essendosi, il segretario del PD e primo ministro, finora mostrato arrogante ma non forte, tracotante ma non autorevole.
Sicché l’unica speranza la dovremo riporre nella soluzione possibile di un’ulteriore versione del “paradosso del bibliotecario”, elaborato dal logico matematico norvegese Thoralf Skolem (che, a sua volta, l’aveva preso dal “paradosso del barbiere” di Bertrand Russell): Il rottamatore di tutti i rottamatori rottamerà anche se stesso?