di Antonio Medici
Il burro è un ossimoro, morbida occasione per dure contrapposizioni. Emulsione di particelle d’acqua in un grasso del latte che divide popoli, culture, religioni. “Alimento raffinato dei popoli barbari” secondo Pilinio il Vecchio, contrapposto all’olio d’oliva impiegato dai popoli civili del sud Europa; e già, la civiltà era a sud un tempo. L’imbarbarimento arriva con la modernità, ai primi del novecento un mercato importante per il burro fu il sud Italia, dove i benestanti, come i barbari d’un tempo, bel contrappasso, intendevano distinguersi dalla plebe proprio usando il burro.
Il divieto di alimentarsi con derivati animali, incluso il burro, introdotto dalla Chiesa Romana nel medioevo, ben presto diventò occasione di commercio. Le indulgenze si mercanteggiavano e quelle per ingozzarsi di burro andavano forte. A Rouen, una delle torri della splendida cattedrale immortalata da Claude Monet nella sua immortale serie impressionista, fu edificata proprio con i proventi del commercio di quegli atti di remissione a pagamento del peccato di mangiar burro e tutt’ora è nota come Tour de buerre . Lutero si incazzò anche per questo e parlò delle indulgenze del burro – butter letters – in uno dei discorsi in cui incitava alla riforma della Chiesa: “for at Rome they themselves laugh at the fasts, making us foreigners eat the oil with which they would not grease their shoes, and afterwards selling us liberty to eat butter and all sorts of other things” – “Perché a Roma ridono dei digiuni, e lasciano noi stranieri mangiare olio che loro non userebbero manco per ingrassare gli stivali, e poi ci vendono la libertà di mangiare burro e altro” – (Discorso ai nobili tedeschi, 1520). Insomma il burro che mangiavano i benestanti barbari e poi quelli meridionali fu anche occasione di protesta religiosa.
L’ambivalenza del burro è anche nutrizionale, ai demonizzatori del colesterolo si oppongono i fanatici dell’alimentazione antitumorale che ne esaltano le proprietà preventive dimostrate da alcuni studi scientifici.
Come sempre, come in tutto, occorre far prevalere la misura e soprattutto il gusto. Quello del burro è ammaliante, non a caso si usa l’aggettivo “burroso” per definire qualcosa di morbido, saporito avvolgente, sensuale. Se i barbari del nord Europa usano il burro per le salse, per quella squisitezza assoluta dell’universo gastronomico francese che è il croissant au beurre e per la dose mattutina di colesterolo spalmata su pezzetti di pane, noi mediterranei lo esaltiamo con la pasta.
E’ difficile dire quale piatto sia più rassicurante della pasta al burro: è nutriente, è facile, è economica, è saporita e, soprattutto, sfama. E’ una preparazione che conforta, nel momento della stanchezza e della solitudine, anche chi non si cimenta con la cucina abitualmente.
C’è un punto essenziale che distingue una pasta al burro approssimativa, pur sempre buona, da una grande pasta al burro ed è la cremosità. Se la pasta non è ben scolata l’acqua residua allaga il piatto, scioglie più facilmente il burro ma il grasso resta disciolto in un’acquaccia giallognola e non si forma quella patina grassa attorno ad ogni pezzo di pasta. Ci si nutre ma non si gode, insomma. L’ideale è emulsionare in burro, parmigiano e un cucchiaio di acqua di cottura della pasta. Ne vien fuori una crema saporita che avvilupperà ogni tubetto, mezza manica, mezzo rigatone (i formati ideali), regalando al palato sensazioni di dolce pastosa grassezza e untuosità saporita. Un cucchiaio tira l’altro in un piacere che rasenta l’osceno per il rimando ad un pasticcio osé.