di Antonio Medici
Febbraio è stato clemente. Febbraio corto e amaro, recita l’adagio popolare, il mese più corto e solitamente più rigido si è proposto, invece, quest’anno con temperature gentili. Campi colorati di primizie floreali: iris azzurri, campanule gialle, violette. Fiorellini delicati, docili, gentili, appunto, come le temperature. I mutamenti climatici, che studiosi e antagonisti, epigoni del Club di Roma, con roboanti annunci ci presentano come nefasti, hanno pure il loro aspetto positivo cui abbandonarsi con impeto epicureo: tenerezze di steli, gaiezze di colori, delicatezze di fiori fragili, già gradite nel loro tempo lo sono viepiù quando sopraggiungono inattese, quando invece si attendeva il candore piatto delle nevi.
Nei supermercati e alle fiere si trovano sempre più facilmente scatoline di plastica con “fiori eduli”, vanno di moda. Raccolte di fiori allevati per arricchire i piatti con colori sterili, senza odori. Non esiste la figura retorica dell’ossimoro fonico ma se mai inventata l’esempio calzante sarebbe certamente “fiori eduli”: tanto inaccettabilmente stride la dolcezza, anche evocativa, della parola “fiori” con la cupezza di “eduli”, in cui la “u” prevarica e ammorba di buio la vivacità dei fiori, tanto è malvagia e falsa l’idea di acquistare fiori allevati, addomesticati per decorare pietanze. Un fiore è una carezza. Si può mai acquistare una carezza? I petali eduli in scatola sono utili per decori di dolcezza posticcia, come quella necessaria dei cuochi che preparano pietanze per persone sconosciute cui regalano un piacere senz’anima.
Il fiore colto dalla locandiera per il suo ospite è ben altro. Animo gentile e gambe resistenti, mano docile e polso fermo tanto occorre per perlustrare campagne e strappare, con forza mite, steli dalla terra feconda. Ha raccolto con amore e poi pulito con cura i petali prima di ammorbidire l’esuberanza del colore viola acceso con la dolcezza dello zucchero e la morbidezza vaporosa della chiara d’uovo montata.
A colazione, con una tazza di caffè, violette candite e violette meringate. Chiuse in un barattolo di vetro per conserve, appaiono come ametiste, gioielli dolci e profumati.
Un odore intenso, fragrante ed umido, fresco di muschio e zucchero filato, evapora dallo scrigno di vetro e avviluppa i sensi, una volta svitato il tappo.
Forse la violetta è amara o forse è sapiente la dose di zucchero e albume, di fatto la dolcezza non è stucchevole ma delicata come un gesto timido d’affetto; e se il petalo è velluto morbido, la violetta candita è velluto croccante.
L’amaro tostato del caffè è il giusto complemento, l’abbinamento armonico.
Un caffè e cinque violette candite, una volta al dì, con occhi semiaperti illuminati e riscaldati da un sole inatteso di febbraio. Prescrizione per placare ogni nervo ed abbandonare il corpo alla tenerezza.
La locandiera non rivela la ricetta: “se ne trovano tante online” dice , probabilmente per svicolare, certamente per sminuire vezzosamente l’esito del proprio lavoro.
Una mattina di febbraio 2016, in una casa che sapeva di campagna.