di Giancristiano Desiderio
La biografia di Pierluigi Battista su Wikipedia inizia così: “Figlio di Vittorio, che fu volontario nella Repubblica Sociale Italiana e poi dirigente del Movimento Sociale Italiano”. Chi l’abbia scritto non si sa ma – come nota lo stesso giornalista nel suo ultimo bello e straziante ma a tratti anche divertente libro Mio padre era fascista (Mondadori) – la manina anonima avrà pensato con questa sensazionale scoperta di fargli male rivelando che suo padre era un fascista e un fascista di quelli che andarono a Salò quindi lui stesso, il giornalista, è a conti fatti un poco di buono in quanto figlio di uno dei “figli di stronza”. Quell’incipit Pierluigi Battista non l’ha cancellato: “Figlio di un fascista repubblichino, e allora?”.
L’articolo che state leggendo non è una recensione perché non ho voglia di recensire Mio padre era fascista. Ho letto il libro dalla prima all’ultima riga e tanto mi basta. Anzi, non mi basta perché avrei voglia di stringere la mano a Vittorio Battista – l’avvocato della famiglia Mattei e di Valerio Morucci, l’amico di Almirante e fondatore del Msi – che visse la sua seconda vita da “esule in Patria” facendo i conti con se stesso e la storia di un Paese che, passato dal fascismo all’antifascismo militante, non ha conosciuto una cultura politica anti-totalitaria. Così mi viene in mente che il mio incontro con Pigi Battista avvenne in nome di Isaiah Berlin che del fanatismo totalitario fu un fiero e intelligente avversario per conto del “legno storto dell’umanità”. Era il tempo in cui lavoravo come cronista parlamentare a Libero e nel palazzo a via Barberini io ero nella redazione al quinto piano e Pigi, che lavorava a La Stampa, al quarto e qualche volta ci si incontrava. Quando uscì un mio volumetto su Croce, Hannah Arendt e, appunto, Berlin, Pigi ne parlò nella rubrica “Quante storie” che allora teneva su Panorama. Quella recensione aveva al centro “un secolo tormentato come il Novecento”. Ecco – mi son detto – la vicenda del rapporto conflittuale tra il padre fascista (Vittorio) e il figlio antifascista ideologico (Pigi), tra la parte sbagliata e la parte giusta, è una storia tormentata che, al di là dei casi personali familiari e intimi, ricade nel meccanismo totalitario di una cultura politica che trasformò l’antifascismo in un giudizio divino con cui dividere gli italiani in buoni e cattivi e accogliere i buoni, i pentiti, i convertiti, i sottomessi mentre chi non si sottometteva veniva dannato per sempre come scarto dell’umanità. E’ all’interno di questo meccanismo infernale, che per tanto tempo è stata ragione politica e ragione storiografica della vita civile italiana, che si è sviluppato il rapporto tra il padre e il figlio. Se non fosse una storia italiana vera fatta di sofferenze e angosce, conflitti e assassinii, si direbbe la storia di un equivoco, senz’altro è la storia di una menzogna che nel “lessico famigliare” di Pierluigi Battista diventa la storia di un’educazione sentimentale e intellettuale che tramite gli affetti e le incomprensioni, gli orgogli e il tempo irrimediabilmente perduto approda alla libertà del pensiero adulto e della vita morale.
Io non credo all’esistenza dei padri fascisti e dei padri comunisti e dei padri socialisti e dei padri cattolici e bla bla bla. Credo all’esistenza dei padri. Quanto sono belli i padri, a volte mi sembrano anche più belli delle madri. Pierluigi Battista ci mette centocinquantuno pagine per dire che il padre non era più, ormai, il padre fascista ma era un padre e basta. Suo padre. Gli attribuisce delle colpe e la principale non è neanche quella di essere stato nella sua gioventù – “l’adolescenza della nazione italiana” – fascista ma di esserlo rimasto dopo e di essersi chiuso volontariamente nel suo mondo di vinti. Ma è davvero così? C’è qualcosa – al di là della vicenda familiare dei Battista – che non torna.
Dicevo che l’articolo non è una recensione. E’ la continuazione di un dialogo avviato qualche tempo fa a via Barberini. Nel 1952 l’Associazione Italiana per la Libertà della Cultura pubblicò un saggio di Vitaliano Brancati intitolato Le due dittature. Lo scrittore siciliano in gioventù fu fascista ma da adulto non volle commettere due volte lo stesso errore diventando comunista. La storia italiana, invece, è costellata di passaggi chiari e oscuri, calcolati e disinvolti dal fascismo al comunismo con la trasformazione dell’antifascismo in arma politica e culturale totalitaria. Il mondo dei vinti – chiuso, rancoroso, risentito – ha qui una delle sue origini. Vittorio Battista non si è rinchiuso per sempre nel campo di Coltano, semplicemente non gli è stato permesso di uscire. Finita la guerra non ci sarebbero dovuti essere – come da subito cercò di mettere in luce Croce – né fascisti né antifascisti, ma il dopoguerra italiano è stato lunghissimo e caduta una chiesa ne emerse dalle catacombe un’altra che, godendo del benessere e della libertà del mondo occidentale, non è stata meno stupida, menzognera e ideologica della precedente. Mio padre era fascista è (anche) un libro su questo mondo culturalmente totalitario, quello che Pierluigi Battista chiama “la fine morale della cultura del dopoguerra”. Una fine che gli permette di riavere un padre, una verità e una patria.