di Amerigo Ciervo
In tempo di Quaresima, una delle riflessioni più significativamente intrigante è, per me, quella che scaturisce dalla lettura di Mt. 4, 1-11: “Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria, e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò, se prostrandoti, mi adorerai”. Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”. Che cos’è il potere? A leggere il passo evangelico, l’ultima e la più pericolosa delle tentazioni diaboliche. E’ possibile ipotizzare, dentro la storia degli uomini, l’assenza di un potere? Sembrerebbe di no, che gli uomini non possano fare a meno di quello che i greci chiamavano arché (che vuol dire anche inizio, principio). E, allora, come andrebbe gestito il potere? Scrivo in uno spazio che, nel suo titolo, si richiama al Sannio beneventano. L’aggettivo l’ho aggiunto apposta. Tutti sanno come il Sannio fosse un territorio che comprendeva, nelle fasi più antiche della sua storia, Abruzzo, Lucania e Puglia, oltre a Campania e Molise. Come ricordano le mappe, impresse a imperitura memoria, sul campanile di santa Sofia, a chi passeggia lungo corso Garibaldi. Dunque della gestione del potere nel nostro Sannio bisognerebbe parlare. Ma vale davvero la pena parlarne? Nel senso che si può ancora dire qualcosa di nuovo sulla gestione di un potere che si rivela immutabile e immobile nella sua quasi eterna fissità? Parlare delle forme del potere nel Sannio beneventano, delle sue modalità, delle sue pratiche, equivale a ricordarsi una delle prime nozioncelle di filosofia apprese al liceo, quello scioglilingua relativo all’essere di Parmenide, “che è e non può non essere” al contrario del “non- essere che non è e non può essere”. Ciò che appare, poi, ancora più eterno e immutabile è il supporto di quel potere, parimenti immobile. Quasi ingenerato e incorruttibile. I materiali, fotografici e televisivi, che ci vengono offerti, attraverso la novità della rete e della comunicazione on line, – materiali che, di sicuro, saranno di grandissimo ausilio per gli antropologi culturali del futuro – in modo speciale per coloro che si interesseranno della cosiddetta anthropologie visuelle (una disciplina, da alcuni anni, molto in voga, soprattutto in Francia) ce ne offrono una straordinaria conferma.
C’è un passo, nella celebre VII lettera platonica, che, forse, fa al caso nostro. Platone ci racconta la sua “conversione” filosofica. Essendo di ottima famiglia – ci dice – avrebbe dovuto necessariamente partecipare alla gestione politica di Atene. Sicché, con filosofica baldanza e giovanile entusiasmo, comincia a seguire le vicende della polis. La realtà gli si presenta – già allora, commenteremmo oggi – nerissima. Più nera di quella notte in cui, come avrebbe beffardamente chiosato un suo futuro collega, “tutte le vacche sono nere”. Cambiano i regimi, mutano gli uomini, tra di essi, per un certo periodo, anche Crizia – niente a che vedere con la stilista -, il fratello della madre. Niente. Tutti facevano sembrare oro, in confronto, il governo precedente. Lo spirito delle leggi e i costumi, aggiunge Platone, si andavano corrompendo fino al punto che “sebbene tanto preso dal desiderio di occuparmi della vita pubblica, finii col rimanerne sconcertato”. Ci sono possibilità di uscita da situazioni simili? La risposta di Platone è chiara. “Le generazioni degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti delle città non diventassero, per un destino divino, filosofi”. Chiariamo subito, per evitare equivoci. I filosofi di cui parla Platone non sono i professori di filosofia. Sono tutti quelli che riescono a cogliere, prima e più degli altri, la verità. Parafrasando De Gasperi, sono quelli che operano scelte non guardando ai voti di oggi, ma alle conseguenze possibili per la città tra vent’anni. Dunque, semplificando, non si tratta tanto di cambiare i regimi. Quello che serve è una profonda rivoluzione culturale. Come dire, per intenderci, che non basta cambiare i suonatori (o i direttori d’orchestra). E’ necessario cambiare la musica. E, sarebbe il caso di aggiungere, dovrebbero mutare profondamente anche gli ascoltatori. Che, in buona sostanza, talvolta pare non s’aspettino altro che la solita, riconoscibilissima musica.
Da qualche settimana, dalle nostre parti, il medioevo è di gran moda. Prima, secondo il giudizio di qualcuno, a causa delle manifestazioni legate a Padre Pio da Pietrelcina. Poi, perché papa Francesco ha nominato, come nuovo arcivescovo, un docente di storia del medioevo della prestigiosa università Gregoriana. Sicuramente una buona notizia, questa, almeno dal punto di vista culturale. Si ritiene non inopportuno consigliare un’ulteriore, fugacissima meditazione su altre fenomenologie relative a quei tempi. Nella lunghissima “età di mezzo”, non ritroveremo solo commercio e processioni di reliquie. Ma anche, in una certa fase, un ben definito rapporto di potere, che si concretizzava nel feudo, ossia in una relazione di tipo personale, revocabile e non ereditario. Che poteva dare vita a una delle colpe più gravi, la fellonia, ovvero il tradimento dei doveri che intercorrevano tra il signore e il suo vassallo. Siamo agli albori del feudalesimo carolingio, certo, ben lontani dallo scintillio, si fa per dire, della nostra postmodernità. Eppure, a leggere alcuni resoconti e a scorrere certi servizi fotografici, si ha l’impressione che l’eco di quella musica, sempre la stessa, torni a rimbombare, quasi un Leitmotiv wagneriano, nelle nostre orecchie.