di Giancristiano Desiderio
La classica definizione dell’uomo come “animale razionale” è risibile. Non perché l’uomo, che l’abate Galiani definiva “animale assurdo”, non sia razionale ma perché la razionalità si basa sul tragico e ancor più sul comico che caratterizzano al meglio la condizione umana. Porfirio nel suo Isagoge, proponendo una fortunatissima sintesi della logica di Aristotele, accantona la formula aristotelica secondo cui “proprio dell’uomo è l’esser capace di apprendere la grammatica” e la riformula dicendo che “il riso è il proprio dell’uomo”. Proprio così. Ciò che contraddistingue l’uomo è il riso per cui l’homo sapiens è homo ridens e, infatti, il filosofo greco nelle Parti degli animali osserva che “nessun animale ride, salvo l’uomo”. Il riso, si direbbe, è cosa seria perché mostra come siano diverse la scienza e la vita. Lo spirito è spiritoso. Per quanto possa essere piccolo o frivolo, quello della barzelletta è pur sempre un mondo con un suo senso compiuto che funziona in modo diverso da come funziona un computer, una macchina, una cronologia. Qualche anno fa pubblicai un libretto intitolato Della barzelletta che, sulla scia di Isaiah Berlin, mostrava come la chiave che ci consente di accedere al mondo di una barzelletta – ma anche della preghiera o della poesia o dell’azione politica – è diversa dal “sapere che” Napoleone morì il 5 maggio 1821 o dal sapere che i canguri sono in Australia o dal “sapere come” funziona la logica binaria o dal sapere come si gioca una schedina. Una barzelletta ci mette in relazione con la nostra esperienza della vita perché, come disse una volta Vito Molinaro parlando di Gino Bramieri, “Dio creò prima l’uomo, poi la donna, e poi il comico”. A volte, come sostiene Andrea Tagliapietra, sembra quasi che Non ci resta che ridere.
Ridere significa trascendere la realtà. La logica risibile destabilizza l’ordine costituito. Il riso è prezioso e pericoloso. Si può ridere di tutto: della vita e della morte, del sacro e del profano, del nobile e del volgare. Sappiamo farlo? Nell’antichità il riso è soprattutto divino e gli dèi ridono fra loro e degli uomini i quali quando ridono partecipano del “divino”. Nel Medioevo il riso diventa diabolico e deturpa il volto. Ne Il nome della rosa, quando frate Guglielmo cita Aristotele dicendo che il riso è “proprio” dell’uomo, il venerabile Jorge, che censura lo scritto aristotelico sulla commedia, lo zittisce dicendo che nelle Scritture non si ride. Ma sia che ridano gli dèi, sia che rida il diavolo, la risata è qualcosa di trascendente che traduce in chiave simbolica “la forza desituante e destabilizzante del riso”. Con il tramonto della trascendenza l’uomo per ridere inventa la serietà e nel contrasto tra serio e leggero l’uomo moderno non ride né con gli dèi né col diavolo ma ride di se stesso. L’esperienza del riso diventa ripetitiva e banale. E’ l’epoca della massa ridente, anche se a volte c’è poco da ridere.
Chissà se oggi si sa davvero ridere. Sì, senz’altro ridiamo, ma forse ridiamo male perché ridendo vogliamo far male. Il riso ha perso leggerezza. E’ amaro. Il riso è risentito e si ride per non piangere. Le lacrime sono l’altra faccia del riso. E l’altra faccia della vita. Non solo piangono i ricchi e i poveri, ma piangono anche i filosofi. L’idea che i filosofi non piangano perché sono superiori alle sciagure umane e hanno imparato a tenerle a distanza è risibile, se non comica, senz’altro è falsa. Le lacrime dei filosofi sono tante e umanissime perché il filosofo, uomo tra uomini, non può di certo sottrarsi alla lotta che caratterizza la vita umana in quanto tale. Le nostre vite, chi più chi meno, sono attraversate tutte da sofferenze e lutti, angosce e dolori, e ognuno si industria, col pensiero e con l’azione, a rispondere ai mali della vita o alla vita e basta come meglio riesce. La filosofia stessa nasce da questa esigenza di soffrire meno sapendo, però, che l’eliminazione della sofferenza è un’illusione e una vita senza sofferenza è una vita senza lotta che equivale a una vita senza vita. Senza contare, poi, che il rimedio assoluto, il superamento definitivo del negativo, è la classica toppa peggiore del buco, un bene peggiore del male. La filosofia può (forse) lenire il dolore ma non eliminarlo, le lacrime sono parte integrante e attiva della vita. I filosofi piangono come tutti.
Il mio Croce nella Logica come scienza del concetto puro – un testo che fa i conti con il mondo impuro, con l’alterità e la mostra nella sua vita piena – cita una bella frase di Alfredo Oriani e osserva che la superiorità della vita della conoscenza è semplicemente il diritto di soffrire più in alto, ma né più né meno degli altri sofferenti, e – aggiunge – è il diritto di soffrire più in alto per operare più altamente. Come ognun può capire, è una strana consolazione, ammesso che voglia consolare. La concezione stessa della filosofia come consolazione è da Croce ripresa e mutata: il pensiero per un verso supera la vita ma per altro verso è superato dalla vita che con le sue forme risana i mali e consola se stessa. La vita si consola con la vita, altroché. Il pensiero non è tutta la vita ma solo una sua modalità e ciò su cui può esercitare la sua benefica funzione riguarda i mali del pensiero, mentre non ha potere sugli altri mali dell’esistenza come invece credevano i filosofi antichi. La filosofia non ha pezzuole, non è un fazzoletto per asciugare le lacrime degli uomini, che devono imparare a versare le lacrime quando è arrivato il momento di farlo. Ciò che può fare la filosofia ossia il pensiero è portare un po’ di luce nelle tenebre mentali dei mortali, tenebre che ossessionano e intristiscono gli uomini ritardando o impedendo la ripresa della volontà con la catarsi dell’azione. E’ qui, se ci riuscissimo, che dovremmo ridere, se il riso non fosse diabolico e beffardo.