di Giancristiano Desiderio
Chi aspetta il miglioramento della scuola da una riforma del governo attende la chimera. Un cambiamento in positivo degli studi educativi accade nell’unico modo in cui è sempre avvenuto storicamente: con la buona volontà degli insegnanti e l’interesse all’apprendimento degli studenti. La scuola, infatti – come anche l’università – è un istituto economico ossia pratico: la sua virtù è l’utilità, il suo vizio l’inutilità. Proprio perché la scuola è un lavoro educativo fondato sulla libertà d’insegnamento e di apprendimento, ogni possibilità di riforma passa inevitabilmente nel rapporto insegnante-alunno o, con parole più belle, maestro-allievo. La vita della scuola, lo si voglia o no, lo si sappia o no, è questa relazione umana. Ogni riforma vera è solo buona volontà. Altro non c’è.
Allora, per capire come funziona la scuola italiana – che ha una storia ormai lunga alle spalle – e per capire se e come migliorarla è necessario intendere in cosa consista oggi la relazione umana che è la scuola. Un tempo il rapporto d’insegnamento e apprendimento era libero e gli studi scolastici non erano eccessivamente burocratizzati. La possibilità di miglioramento era insito nella scuola e dipendeva realmente dalla buona volontà dell’insegnante, dal suo scrupolo, dalla sua vocazione, dalla sua vita intellettuale e morale e dalla sua maestria nel saper eccitare, suscitare, far partorire la gioventù.
Oggi – ma non da ora, perché c’è tutta una lunga storia di fraintendimenti dietro e sopra le spalle della scuola italiana – oggi il rapporto non è a due ma a tre: tra l’insegnante e lo studente c’è lo Stato. L’intervento dello Stato in una materia in cui di fatto – per dirla con un linguaggio contemporaneo – non ha competenze appesantisce il pratico lavoro educativo gravando proprio su quella buona volontà che vede quasi vanificati i suoi sforzi. Lo Stato dettando regole, organizzando il lavoro, imponendo la didattica, istituendo esame statali scolastici e, soprattutto, legalizzando il valore del titolo di studio snatura la relazione umana in cui consiste la scuola e così crea attraverso le leggi la condizione stabile per l’impossibilità del miglioramento degli insegnamenti e degli studi ossia della scuola. In questa condizione è proprio lo Stato, ossia il governo, a creare l’illusione di poter cambiare e migliorare il sistema scolastico attraverso gli interventi legislativi che se hanno un effetto è solo quello di impedire alla buona volontà di vivere e crescere. Un buon governo – e un ottimo Stato – non interviene pesantemente nella scuola ma se ne ritrae perché ne è un “corpo estraneo”.
In fondo, che cos’è la scuola in uno Stato laico? E’ una sorta di clero laico al quale è affidato il compito dell’educazione della gioventù. In questa funzione vi è la sua nobiltà e il suo limite: la nobiltà è l’educazione, il limite è nella dimensione inevitabilmente pratica, socialmente organizzata del sapere trasmettibile. Come un tempo la Chiesa aveva il monopolio delle cultura (e della anime) e ne faceva il presupposto della sua teocrazia o, almeno, della commistione tra spirituale e temporale, così nell’età moderna lo Stato si deve affidare a una sorta di clero laico per l’educazione dei giovani e deve svolgere il suo ruolo soprattutto nella garanzia della laicità e della libertà della cultura e dell’educazione. In tal modo il conflitto classico tra Stato e Chiesa viene a cessare storicamente ma non idealmente: se lo Stato, infatti, ricopre un ruolo che non gli compete il conflitto si ripropone ma non più tra Stato e Chiesa ma tra Stato e Stato. Oggi noi viviamo in questa situazione drammatica che i più non vedono e i pochi non vogliono vedere.
L’ultima legge di riforma non riforma nulla se non l’aspetto dell’organizzazione del lavoro del corpo docente: assunzioni, mobilità, ruoli. Ma nei fatti non incide nella scuola se non intralciando e ostacolando il lavoro della buona volontà ossia dei ben disposti all’insegnamento. Chi legga la legge 107 si troverà davanti una scatola scolastica vuota con un proposito perfino stupido: la fine delle supplenze, che è un po’ come prefiggersi di svuotare il mare. La stessa intenzione di imporre per legge l’autonomia scolastica è un controsenso e lo è doppiamente nel momento in cui si tratta di un’autonomia fittizia in cui il primo sole, intorno al quale tutto continua a girare, è sempre il ministero. Lo Stato – che in concreto è governo e ministero – con una mano dà autonomia e con l’altra la toglie in una specie di impazzimento di un sistema scolastico che, coma la Chiesa di un tempo, non ha più in sé la forza di autoriformarsi.