di Giancristiano Desiderio
Altro che filosofia, avrei dovuto studiare letteratura, questa è la verità. Il libro che ho scritto sulla verità si sarebbe potuto intitolare anche Per farla finita con la verità e con la filosofia perché di fatto è un libro contro la verità e contro la filosofia. Contro la verità assoluta e contro la filosofia teologica, metafisica, accademica, professorale, dottrinaria, cattedratica e alla fine ciò che resta della verità e della filosofia è solo l’esercizio del giudizio che ha per suo contenuto la storia che siamo e la vitalità che ci possiede e ci offre la possibilità di essere finché dura, fino a quando non ci viene un colpo e ci manda all’altro mondo. Ciò che resta è, appunto, la capacità di giudizio, proprio come nell’esercizio della critica letteraria. E, allora, tanto vale lasciar perdere la filosofia ed esercitarsi direttamente nell’arte che più ci aggrada e che più sentiamo nostra secondo passioni e inclinazioni. Come diceva Hume, buttate a mare tutti i libri di metafisica e dedicatevi un po’ alla conoscenza della storia e del cuore umano.
Hegel a volte era disperato ed esclamava: “Quale Dio mi ha dannato a fare il filosofo? Non ne caverò mai le mani!”. Perché anche quando hai messo tutto a posto, come un bravo artigiano della tua mente, il dubbio ritorna a muovere il pensiero che non sa starsene con le mani in mano e nutre alimento dalla vita stessa che, alla lettera, gli dà da pensare. Qui si può arrivare non ad amare ma ad odiare la filosofia. Quando Croce si sentiva dire, a mo’ di complimento, “voi che amate tanto la filosofia…”, subito gli ritornavano alla mente il pittore Eduardo Dalbono e i suoi gatti che gli riempivano la casa fino alla completa anarchia perché in totale balia di gatti di ogni tipo: sani, malati, ciechi, tignosi. Il pittore se li portava in casa e li curava e Croce una volta lo incontrò e incautamente gli disse “voi che amate tanto i gatti…”. Non lo avesse mai detto. Il pittore scattò come una molla: “Io li amo? Ma io li odio, io ne tremo! Come posso amarli se, quando ne trovo per istrada uno sperduto, battuto, affamato, storpio, quando sento il miagolio che mi pare d’implorazione, sono costretto a prenderlo in braccio e a portarlo a casa? Li odio come odio il pezzente mancante di un occhio che viene la mattina a bussare alla porta, e al quale debbo fare per forza l’elemosina, se no tutta la giornata ho dinanzi quella faccia”. Eccola qui la filosofia, è proprio come gli amati e odiati gatti di Dalbono che non lasciavano mai in pace il pittore e scrittore napoletano e lo tormentavano fino a quando non trovava la forza di portarseli a casa e curarli e così è con i dubbi e i pensieri che rinascono in modo incessante e non ci danno tregua – o, almeno, non mi danno tregua – fino a quando non li avete momentaneamente messi a posto. Momentaneamente, perché ritorneranno proprio come i gatti di Dalbono.
Allora ti senti dire “ma prendila con filosofia” che è una di quelle frasi odiose che non significano nulla e che si portano dietro il più classico dei pregiudizi scolastici che vuole il filosofo sereno e superiore come una banana mentre la banana ve la dovete mettere in quel posto perché il filosofo, semmai esista un tipo umano di tal fatta, altro non è che un lavoratore inquieto che per mestiere e vocazione distingue fatti e idee, volontà e attività umane e il suo stesso attrezzo da lavoro – il pensiero – non è riposante ma agonico e perennemente in azione e lotta. L’atto della distinzione – il pensiero che qualifica cose e volontà – è faticoso per natura: è un continuo salire e scendere dalla categoria alla cosa. Tutta la nostra conoscenza – anche e soprattutto la conoscenza ordinaria dell’uomo comune e, per fortuna, nonostante la boria dei dotti e dei fessi, siamo tutto uomini comuni e i più comuni sono i grandi uomini – ruota intorno alla terza persona del verbo essere: in quella copula predicativa che qualifica le cose ed è al tempo stesso una categoria e una potenza con cui nel giudizio si viene a costituire quello che chiamiamo mondo. Ecco perché i giudizi fanno male più delle pietre: perché dentro hanno un mondo che quando ti arriva addosso con tutta la sua forza rivelativa ti può esaltare o anche schiantare a terra. Non sta scritto da nessuna parte che la verità sia una cosa piacevole e non bisogna canticchiare il motivetto di Caterina Caselli per sapere che può far male.
Tuttavia, per vivere una vita umana, cioè dignitosa, non possiamo fare a meno della verità giudiziosa, come Dalbono non poteva fare a meno di far l’elemosina al cieco ad un occhio e di curare i gatti che lo tormentavano. Perché in fondo – nel senso che estrae dal fondo – il giudizio altro non è che la formalizzazione della nostra esperienza del mondo ed è la messa a tema delle nostre passioni, di ciò che patiamo e di ciò che viviamo come risposta ai bisogni e ai dolori dell’esistenza. Il pensiero è l’eterno tentativo di uscire dalla caverna che siamo e ho pena a pensare che gli uomini sono stati chiusi nelle caverne dei gulag e dei lager anche in nome della verità o della sua travisata inesistenza. Avrei dovuto studiare letteratura.