Come ci sono autori di un solo libro o di un solo verso anche se hanno scritto tanto e pubblicato di più, così ci sono cantautori e cantanti di una sola canzone anche se ne hanno scritte tante e cantate di più. Prendete il caso di Ivano Fossati: è un cantautore raffinato e prolifico, che proviene dalla tradizione della scuola genovese degli strimpellatori, ma alla storia della musica leggera italiana passerà una e una soltanto delle sue canzoni: La mia banda suona il rock. E tutto il resto della sua opera musicale? Beh, è proprio il caso di dirlo, tutto il resto all’occorrenza. Il cantautore genovese, che non canta più e che vorrebbe veder riconosciuto, come è riconosciuto, il suo ricco canzoniere, odia La mia banda suona il rock fino al punto da disconoscerla o mal sopportarla e la odia perché sa che quel brano è ciò che rimarrà di tutta la sua opera. Come Petrarca – se è lecito anche se non è lecito far paragoni del genere – si attendeva dalle sue opere latine la fama eterna che invece gli venne dal Canzoniere, così Fossati vorrebbe passare alla storia musicale per i suoi brani alti e sofisticati ma La mia banda – che grazie al cielo scrisse in un momento di stato di grazia – con il suo rock bambino sopravanza di tanto la sua musica e la sua stessa figura di cantautore da essere ormai già da tempo patrimonio musicale universale. E’ il destino strano di coloro che vogliono essere popolari e comunitari – e comunisti, si dica pure – e quando fanno qualcosa di popolare si vergognano come cani e si rifugiano nello snobismo (di massa). La vera canzone popolare di Fossati non è quella lagna de La canzone popolare o quella cosa intellettualistica che è La costruzione di un amore ma La mia banda suona il rock a cui bisognerebbe dedicare un seminario, ma speriamo che nessuno mai lo faccia perché sarebbe la fine della musica che è speranza ed è pazienza.
Lo so, saranno in tanti a criticarmi e ancor di più, dicendomi che non capisco niente, mi spiegheranno le varie fasi o stagioni musicali del cantautore genovese ma son tutte cose che non faranno altro che confermare quanto detto: La mia banda suona il rock è musica spontanea che penetra nei muri, ti fa breccia nella porta, ma in fondo viene a dirti che la tua anima non è morta, mentre le altre canzoncine sono, appunto, canzoncine che sono costruite con la testa e in quanto tali risultano rachitiche e di un moralismo esasperante. Basta la data di nascita della Banda – 1979 – per capire che si tratta di un pezzo sempre vivo che per quanto sia legato al tempo sembra non avere tempo ed è sempre giovane e forte e bello e robusto e giocondo come un treno che è passato con un carico di frutti, come una festa mobile o una sferzata di vento e pioggia prima di colpire il pallone di collo pieno e metterlo sotto l’incrocio dei pali.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono ora fatemi la cortesia di non prendermi per matto – ma se volete accomodatevi, tanto quanto piace al mondo è breve sogno – perché sto per accostare al sofisticato Fossati il contadino Al Bano. La canzone di Al Bano Nel sole è un brano che entra di diritto nella storia musicale, non solo perché è orecchiabile e la voce di Albano è potente ma anche perché ha una sua forza espressiva in sé. Il cantante di Cellino San Marco con quella canzone è una sorta di transizione tra il vecchio e il nuovo – se una roba del genere ha un senso – e il cantautore di Genova che è un innovatore per natura è a suo modo un ascoltatore della voce solare dell’ex marito di Romina Power. Anche Albano Carrisi, nonostante tutti i panini, le felicità e le infelicità e i balli del qua qua avrà un posto nella storia della musica leggera italiana e sarà un posto lusinghiero proprio grazie a Nel sole che è una classica canzone melodica, che sembra far rivivere Claudio Villa, e regala due minuti di puro stordimento. Perché si può far tanto e nondimeno si lascerà poco ma che almeno quel poco sia di ottima qualità. E’ sempre stato così: si deve far tanto per lasciar qualcosa di buono. E non è neanche detto che il buono venga dopo aver faticato tanto: magari il buono arriva subito e dopo non si riesce più ad essere all’altezza di quel se stesso che quasi si vorrebbe maledire. Come, per far l’esempio ancor con la letteratura – ma il Petrarca è in sé storia della poesia e storia della letteratura, mi raccomando, non si confonda – Aldo Busi ha scritto di cazzi, culi e canguri ma alla fine ciò che resterà sarà il libro dell’esordio, quel Seminario sulla gioventù che non seppe poi far più.
A questo punto, giunti alla fine di questo maldestro tentativo di abbozzare una Bildung attraverso le canzonette, fatemi dire che a volte ho l’impressione che la Provvidenza, che la sa molto più lunga di noi – ma non ci vuole poi tanto -, si diverta non poco a prenderci per i fondelli e a metterci in testa strane idee come quella di fare un seminario sulle giovani zanzare de La mia banda suona il rock che, forse, vorrebbe essere un seminario sulla nostra gioventù, sempre meglio a ben vedere di un seminario sul Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein che finisce con quella provvidenziale proposizione numero 7 che sembra fatta apposta per prendere tutti per il culo: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” (ma sempre meglio della 6.54 che se volete vi andate a leggere voi perché io non voglio sfottervi più di tanto).