di Antonio Medici
Diciamo la verità, la sofisticata retorica che avviluppa le discussioni sul cibo e la presentazione dei piatti nei ristoranti, ci sta esasperando. Anche la barriera immunitaria delle bettole più malfamate e delle osterie più autentiche ha ceduto al virus DDV CEF (Da Dove Viene, Come È Fatto), pure lì gli osti, pur con meno pomposità degli chef dal mantesino di chiffon, si prodigano di enfatizzare l’utilizzo dei broccoli dell’ortolano della landa desolata, la cottura della patata, interrata e poi sotterrata dal Montenonsodove, in acqua acidulata a temperatura costante. Deve essere giusto per la benevola clemenza degli avventori o per il già avvenuto contagio del fatal virus che oggi le sale da pranzo non sono invase dal fragore delle eduardiane pernacchie che meriterebbero di raccogliere i cuochi ai primi accenni di narrazioni infette da DDV CEF.
Non è in discussione la più che giusta e necessaria educazione al gusto e l’apprezzamento per la resistenza all’avanzata del cibo spazzatura, precotto, stracotto, rimpinzato di glutammati ed esaltatori di sapori, che un flacone di chemioterapia si suiciderebbe alla lettura della composizione; è che, complice certo business costruito intorno al food, settore di profitto anche in tempo di crisi, si va perdendo un aspetto essenziale del mangiare: l’umanità. Buona pietanza non è solo quella che esita da una tecnica sopraffina o che è realizzata con ingredienti di altissima qualità e di apprezzabilissimi valori etici (le produzioni dei piccoli agricoltori, quelle non inquinanti, quelle eco solidali, la biodiversità, ecc). E’ buona anche la pasta con fagioli apolidi che però evoca i mercoledì a casa della nonna, il pane mal lievitato e per questo profumato di un lievito di cui poco importa che sia madre o figlio di enne enne, il filosh ripieno del pezzetto del pane utilizzato per raccogliere bene nel piatto anche l’ultima stria di uovo sbattuto. Si ama la cucina d’osteria e l’alta cucina perché di più, molto di più, si ama il cibo la cui verità è in noi prima che in esso stesso. Insomma, non possiamo ridurre il piacere del cibo alle alchimie di piccoli artigiani e grandi maghi; se non fossimo compiaciuti sino alla commozione dal peperone di supermarket imbottito e servito bruciacchiato sulle tavole di famiglia mai apprezzeremmo la maestria di chi lo porge scomposto ma ordinato per sfumature di colori pastello.
Nella ansiosa attesa del giorno in cui qualcuno ci dirà di aver cotto la guancia di maialino in modo da renderne la carne morbida come le gote rosee di una giovane fanciulla, piuttosto che a settantacinque gradi per dodici ore, rileggiamo un magnifico passo di Marcel Proust:
“Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre … mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè … mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine … appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita … non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. … Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? … è chiaro che la verità non è nella bevanda, ma in me. E’ stata la bevanda a risvegliarla, ma non la conosce … Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito … e sento in me il trasalimento di qualcosa che … che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente … all’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio….”
Marcel Proust
Dalla parte di Swann