Abbiamo un problema, anzi due. Uno con la pace e uno con la guerra. Il problema con la pace è l’irenismo. Consideriamo la pace uno stato naturale delle cose. Come se la vita pacifica fosse un frutto della terra, mentre neanche i frutti della terra sono spontanei ma coltivati. Abbiamo santificato il lavoro ma abbiamo dimenticato che noi stessi siamo stati lavorati per essere arrivati fin qui. L’idea sbagliata che la pace sia un dato naturale ci deriva dall’abitudine e da un lungo periodo di pace – nel senso di assenza di guerra – senz’altro il più lungo a noi noto. Siamo nati nella pace e abbiamo vissuto nella pace e il nostro cervello – prim’ancora del “nostro” pensiero – ha rimosso l’idea stessa della possibilità della guerra. Ma la rimozione dell’idea di guerra indebolisce la pace e, per quanto la cosa appaia paradossale, la snatura. La pace non è un regalo ma una conquista. La stessa pace è figlia del polemos che a tutti è re e non è necessario immaginare soldati ed eserciti per capire che la stessa vita civile – la vita dei cosiddetti tempi di pace – è una lotta continua.
Il problema con la guerra è il benessere. Il senso delle nostre vite moderne è racchiuso nella parola benessere: vogliamo star bene e accrescere il nostro grado di benessere. La guerra, invece, significa morte, lutti, perdite, dolori e la nostra vita democratica – intendo proprio la vita nostra, dell’Italia – non è in grado di sopportare un numero consistente di suoi figli caduti al fronte. L’Italia rifiuta e ripudia la guerra e il principio pacifista è stato scritto anche nella carta costituzionale. Il nostro stesso esercito non è adeguato per fare una guerra ma solo per partecipare, in vario modo e a vario titolo, alle “missioni di pace” con gli alleati. Siamo un paese fragile, non solo militarmente – e forse è un bene, come diceva Francesco Cossiga -, ma anche moralmente – e questo è di sicuro un male, anche se nessuno lo dice. L’ultima guerra italiana è una guerra perduta e – qualunque sia la posizione ideologica di chiunque – è una guerra perduta da tutti. L’Italia repubblicana ha ricevuto la libertà in dono dagli eserciti stranieri. Il patriottismo italiano è morto e sepolto sotto le macerie della Seconda guerra mondiale che non potevamo di certo augurarci di vincere al fianco di Hitler e di una Germania in dissidio spirituale con la sua stessa storia. Ma si può fare una guerra se non si ha una patria in cui credere? I francesi, attaccati al cuore, hanno cantato la Marsigliese. Noi italiani non avremmo intonato l’inno di Mameli.
E’ una brutta e delicata situazione. Perché finite le guerre di liberazione e tramontate le guerre coloniali e archiviata la guerra fredda rimane pur sempre la guerra di difesa. I nostri valori di riferimento – libertà e pace -, che non sono idee astratte ma vita concreta, vanno difesi tanto sul piano ideale quanto sul piano reale. Se abbiamo escluso di fare la guerra d’aggressione, possiamo escludere anche la possibilità della guerra di difesa senza perdere non solo la libertà ma anche quel benessere che sembra essere il bene al quale maggiormente teniamo? Non si tratta di fare l’apologia della guerra o di diventare fanatici ma di essere consapevoli della nostra vita civile e della cultura che storto morto ancora la sostiene. Se concepiamo e meniamo in modo che sembra spontaneo delle vite libere è perché nei secoli abbiamo imparato a distinguere i poteri: il temporale dallo spirituale, la scienza dalla fede, la verità dalla politica e a nostre spese abbiamo capito che l’idea di sopprimere e superare tutti i conflitti è un rimedio peggiore del (presunto) male. Eppure in piena modernità siamo addirittura passati dentro i lager e gulag dei totalitarismi arrivando a concepire lo sterminio di massa e, tuttavia, la parte migliore e più vera della nostra cultura occidentale è riuscita a tirarci fuori dall’Abisso, mentre le illusioni seducenti dell’Anticristo prendevano ancora una volta la forma irrazionale dello Stato totalitario dividendo in due il mondo. Quella che noi oggi abbiamo davanti è una sfida alla nostra anima prima che un agguato ai nostri corpi.
Il terrore islamico non è l’Islam ma non dobbiamo ingannare noi stessi pensando che l’Islam sia come noi. L’Islam non concepisce la distinzione dei poteri e una cultura indistinta è fonte di fanatismo. Non dobbiamo promuovere guerre di religione proprio perché veniamo dalle guerre di religione – dei secoli passati e del secolo passato – ma dobbiamo coltivare la cura dell’anima perché da qui dipende la particolarità universale della nostra cultura della libertà in grado di creare quei diritti umani nei quali tutti, se lo vogliono, possono riconoscersi. Questa cultura umanistica la dobbiamo difendere con le idee e con i petti sapendo che sarà la storia stessa che ci farà riscoprire il dramma e il senso del sacrificio. Pensavamo di essere fuori dalla Storia o ormai giunti all’ultimo giorno della storia, quasi una sorta di ultimo giorno di scuola e, invece, ci ritroviamo nel mezzo della storia che siamo e alimentiamo con le nostre nascite, con il nostro benessere, con il nostro malessere. Se c’è una cosa che dobbiamo imparare a dismettere è la conta degli errori del passato, veri o presunti che siano, giacché gli errori passati non giustificano gli orrori presenti. Non avremo la replica delle guerre del passato perché raramente la storia ripercorre strade già battute, ma nondimeno si ripresenta sotto altre spoglie il male che ci portiamo dentro e con esso la necessità di resistere. Gli attacchi di Parigi ci riguardano non solo perché potevamo essere noi nel Bataclan – e infatti c’era una di noi: Valeria Solesin – ma anche e soprattutto perché ha colpito noi in quanto europei e noi se non siamo europei (e americani, sì americani) non siamo niente. Oggi, se vogliamo, lo sappiamo più di ieri. Questa è la nostra guerra, questa è la nostra pace.