L’autore della storia della letteratura italiana più importante e significativa è un meridionale: Francesco de Sanctis. Il critico letterario per eccellenza è un meridionale: Benedetto Croce. La parte più bella e saporosa della letteratura italiana del secondo Novecento è siciliana e napoletana. Ma al ministero dell’Istruzione non lo sanno e nel redigere il compitino sugli “obiettivi specifici di apprendimento” fanno coincidere la storia della letteratura italiana con una sorta di storia della letteratura settentrionale. La Regione Campania non ci sta e con un documento approvato all’unanimità chiede che i programmi ministeriali siano modificati e integrati giacché non si può fare a meno della poesia di Quasimodo, de L’uva puttanella di Scotellaro, de Il giorno della civetta di Sciascia, dei racconti di Spaccanapoli di Domenico Rea. Ben detto. Tuttavia, se si ritiene di risolvere la mutilazione letteraria del ministero con l’integrazione critica della Regione si fa un errore marchiano. Non sarà una lista della lavandaia più lunga a dare maggiore dignità agli scrittori e poeti del Mezzogiorno e più senso allo studio della letteratura. In questa tragicomica storia, infatti, lo scandalo non sta nell’esclusione fatta dal ministero, bensì nell’assurdità che un ministero – ossia lo Stato, sia in chiave centrale sia in chiave regionale – si arroghi il diritto di dire cosa si insegna e cosa no.
Salvatore Valitutti – tanto per cambiare un meridionale, salernitano di Bellosguardo, fu ministro dell’Istruzione alla fine degli anni Settanta – diceva che lo Stato non deve essere un pedagogo. In Italia, purtroppo, non solo lo Stato è pedagogo ma gli stessi insegnanti non rivendicano mai la loro sacrosanta libertà di insegnamento mentre chiedono sempre a gran voce di diventare di ruolo ossia di essere arruolati. Così la questione dei programmi ministeriali è molto più delicata e seria di quanto non appaia perché non riguarda questa o quella esclusione e non si risolve con una burocratica rivendicazione regionalista ma investe il senso del rapporto tra la funzione del programma e la libertà di scelta e lavoro dell’insegnante. Ogni professore e ogni professoressa d’Italia deve redigere ogni anno la programmazione le cui linee generali sono dettate dal ministero. Il “corpo insegnante” è a tutti gli effetti un automa che applica quanto lo Stato pedagogo stabilisce. La cosiddetta “buona scuola”, nonostante la grancassa retorica sull’autonomia, rende ancora più stringente il vincolo tra ministero e programmi. I docenti altro non sono – e purtroppo aspirano ad esserlo – che degli esecutori. In questo modo si è capovolto il rapporto tra mezzi e fini: l’insegnante invece di usare il programma per “svolgere” gli allievi, usa gli allievi per svolgere il programma. E’ un mondo capovolto in cui l’insegnamento della scienza, della letteratura, della storia si fonda su un malinteso principio d’autorità che risale nientemeno che al Parlamento italiano e al governo di turno. Povera scuola.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 3 novembre 2015